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  • Dario Fo fa 90, prende a pugni il destino

    Dario Fo fa 90, prende a pugni il destino

    • Marco Bernardini
    Quando, era maggio il mese delle rose, di mattina presto ricevetti la telefonata del mio amico-attore “Lucignolo” Maurizio Trombini il quale mi comunicava che Franca aveva lasciato questo mondo, il primo pensiero fu per Dario. Quel giorno ci aveva lasciato una donna di statura eccezionale per moralità, senso civico, impegno politico e qualità artistiche. Una compagna per un breve viaggio durato due anni soltanto eppure fondamentali per il futuro. Quando, a Milano nel 1970, tentando di avvicinarmi a una professione differente da quella che in seguito mi rapì, lei mi accolse sotto il tendone del mirabolante “circo” della premiata ditta Fo-Rame. Erano le stagioni dell’impegno teatrale votato alla “rivoluzione”, con un paio di Capodanni festeggiati in platea e sul palco di Via Colletta dopo che il sipario si era chiuso su “Pum, pum chi è? La polizia” e “Pinelli, morte accidentale di un anarchico”. Ebbene, quarant’anni dopo, in quel momento di dolore autentico non potevo fare a meno di immaginare il viso e l’anima dell’altra faccia di Franca. Dario Fo, appunto, improvvisamente mutilato di una parte fondamentale per la sua esistenza. Anche quella fisica, temetti, proprio come era già accaduto per Fellini e la sua Giulietta o per la Mondaini e il suo Raimondo. Difficile che un “pappagallino inseparabile” sopravviva a lungo dopo la scomparsa della compagna.

    Giovedì sera, al Piccolo di Milano, la festa è stata bellissima. C’erano tutti quelli che dovevano esserci e, sospesi tra terra e cielo, anche quelli che non potevano trovarsi lì. Almeno non fisicamente. Giorgio Gaber, Enzo Jannacci, Giorgio Faletti, Beppe Viola, Sandro Ciotti e tante altre “maschere” dell’intelligenza irriverente e sghignazzante di tutti i tempi. Naturalmente anche Franca. Eccome se era lì a carezzare il suo compagno di una vita clamorosamente e intensamente vissuta mentre spegneva le candeline su una torta di fragole e panna montata. Dario nel giorno del suo novantesimo compleanno. Un’età raggiunta da un Premio Nobel e campione assoluto, per il quale ciascuno di noi deve provare orgoglio, malgrado i timori di un “crollo” psico-fisico provocato dal distacco dall’altra sua metà per fortuna non avvenuto. Anche questo può raccontare a suo figlio Jacopo e ai suoi nipoti Dario Fo: l’essere riuscito a gabbare il destino con la potente arma dello sberleffo.

    Del resto, il Re Leone non avrebbe potuto abbandonare la scena terrena per via delle ancora tantissime cose che gli restavano da fare. Una mostra permanente a Milano con più di quattrocento dipinti esposti dei quattromila realizzati in tutta la sua vita di pittore-scenografo. Una Fondazione intitolata a Franca. Stage teatrali per i giovani. Una nuova commedia. L’ennesimo libro. Un libro di sport, nientemeno. Lui al quale piace ricordare di essere stato praticante: “Non di pallone. A calcio giocava mio fratello. Era anche molto bravo, seppure non abbia superato la barriera del dilettantismo. Io, da giovane, sciavo, tiravo di sciabola molto bene e correvo i quattrocento come allievo di Missoni. Tifo per il Cesena perché Franca e io abbiamo sempre trascorso le vacanze nella nostra casa di Cesenatico, a ritengo lo sport in generale una benedizione fino a quando riesce ad essere un fenomeno culturale e sociale positivo”. Esattamente come vuole e riesce ad esserlo nella trasposizione del suo ultimo libro una storia tragicamente vera.

    “Razza di zingaro” è il titolo del romanzo-verità che l’editore di “Chiarelettere” ha pubblicato in questi giorni per la firma di Dario Fo. Si racconta di Johan Trolmann, un gigante di ragazzo bello e di razza “sinti” che vinse il titolo di campione dei mediomassimi sul ring di Berlino nel 1933 proprio l’anno della scalata di Hitler al potere. Il suo nome di battesimo, secondo tradizione nomade, era Rukeli ma dovette cambiarlo per figurare sui manifesti che annunciavano i suoi incontri. Picchiava, anche duro, ma soprattutto danzava sul ring facendo perdere il senso della misura agli avversari stortiti da quel volo di farfalla. Proprio come, tanti anni dopo, combatteva Mohammed Alì che probabilmente aveva visto Trolmann in qualche filmato dell’epoca. Troppo bravo per non essere ariano. Cominciarono per lui le persecuzioni. Fu costretto a divorziare per non mettere in pericolo la moglie e i suoi due figli. Alla fine venne arrestato e spedito in un lager dove era costretto a combattere e possibilmente a perdere contro i pugili delle SS. Durò poco quella ignobile e umiliante sottomissione. Una sera, alla terza ripresa, Rukeli riempì di pugni la faccia di un kapò e lo mandò al tappeto. Due giorni dopo il corpo del giovane campione sinti che non voleva più perdere venne trovato nella discarica del lager. Era stato assassinato a colpi di mazza sulla testa.

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