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  • Dentro il viaggio dello Shakhtar: 'Calcio, mercato e speranza, come si ricostruisce un club dalle macerie'

    Dentro il viaggio dello Shakhtar: 'Calcio, mercato e speranza, come si ricostruisce un club dalle macerie'

    • Federico Targetti
    “Quanto ci vuole da Rennes a Donetsk?” si potrebbe essere chiesto in maniera un po’ distratta un tifoso francese dopo il sorteggio degli spareggi di Europa League. “No, guarda che lo Shakhtar non gioca più alla Donbass Arena dal 2014, e poi c’è la guerra, bisogna andare a Leopoli. Anzi, nemmeno, perché le partite internazionali in casa le giocano a Varsavia”. Chiamala casa… In effetti, dopo l’autoproclamazione delle repubbliche filo-russe di Donetsk e Luhansk, la base dello Shakhtar si è spostata a Kiev, per poi passare a Leopoli, vicino al confine con la Polonia, in conseguenza dello scoppio del conflitto un anno fa. Lo Stadion Wojska Polskiego, casa del Legia Varsavia, ospita invece le gare interne nelle competizioni continentali. 2-1 in Polonia, quindi, e stesso risultato al ritorno in Francia dopo i supplementari. I rigori hanno premiato gli arancioneri, vittoriosi grazie ad un super Trubin, capace di parare tre penalty. E’ giovedì 23 febbraio, e i minatori (“Shakhtar” significa proprio “minatore”) sono agli ottavi di Europa League, 364 giorni dopo che la vita, non solo il calcio, in Ucraina è drasticamente cambiata.
     
    Lo Shakhtar stesso è decisamente cambiato, da un anno a questa parte: la maggior parte degli stranieri, compresi i brasiliani che tanto hanno reso famoso il club negli anni, se n'è andata, sfruttando i regolamenti FIFA che hanno favorito la fuga dall’Ucraina. Ora a Leopoli gioca una squadra giovanissima, formata quasi totalmente da giocatori ucraini e seconda in campionato dietro il Dnipro. Dietro questa realtà c’è anche un po’ di Italia: Carlo Nicolini lavora per il club dal 2004, allora vice di Mircea Lucescu, con una parentesi tra Zenit San Pietroburgo e Nazionale della Turchia dal 2016 al 2020. Oggi è l’assistente del direttore sportivo, Darijo Srna (ve lo ricordate? Ha giocato anche nel Cagliari), e ha lavorato tra le altre anche alla trattativa che qualche settimana fa ha portato Mykhaylo Mudryk al Chelsea per 100 milioni di euro.

    Dentro il viaggio dello Shakhtar: 'Calcio, mercato e speranza, come si ricostruisce un club dalle macerie'

    Quando decidiamo di contattare Nicolini, all’indomani della vittoria di Rennes in Europa League, nel pomeriggio, ci rimanda alla sera: è ancora in viaggio. Naturale dunque che la nostra intervista a un anno dall’invasione russa parta proprio dalla logistica. Sono le 18:48 di venerdì 24 febbraio.

    “Sono abbastanza distrutto”, esordisce Nicolini con una lieve risata. “Siam partiti stamattina alle 9 e siamo arrivati in questo momento… Le trasferte per noi sono complicate, non potendole fare più direttamente. Ci siamo avvicinati con l’aereo da Rennes all’aeroporto più vicino al confine tra Polonia e Ucraina, dove c’erano i nostri pullman ad aspettarci, poi abbiamo fatto il controllo alle due dogane, quindi l’arrivo a Leopoli, dove giocheremo il prossimo martedì contro il Mynaj alla ripresa del campionato”.

    Caspita, quindi è così complicato spostarsi?
    “Vi faccio un esempio. La Juve ha giocato a Nantes, e il giorno dopo era già ad allenarsi per fare defaticante. Noi il giorno dopo la partita col Rennes non abbiamo potuto fare nulla. In pratica perdiamo due giorni a settimana, sistematicamente. E questo va sottolineato se si vuole prendere in esame lo Shakhtar, che sta compiendo un’impresa sportiva fuori da ogni logica. E’ così da un anno…”

    E dire che anche prima della guerra non potevate giocare in casa per via della storia delle repubbliche di Donetsk e Luhansk.
    “A pensarci bene, siamo in trasferta da 9 anni. Ma da un anno a questa parte la vita sportiva è cambiata. Tutto si è fermato, non sapevamo cosa sarebbe successo. Ci siamo trovati ad organizzare amichevoli in giro per l’Europa in primavera per portare un po’ fuori i ragazzi e i dipendenti e nel frattempo sensibilizzare, raccogliere fondi per ospedali e orfanotrofi. A giugno non sapevamo ancora se ci fosse non solo un campionato, ma proprio una squadra. Alla fine del mese è stato deciso di giocare, abbiamo avuto 15-20 giorni per fare mercato, trovare un allenatore, organizzare il ritiro in Turchia e prepararsi a campionato e Champions. Solo la passione e la forza del presidente Akhmetov e di tutta la società ha permesso di costruire qualcosa di competitivo”.

    Ci sembra che ci siate riusciti. In Champions avete battuto il Lipsia in trasferta e pareggiato col Real Madrid in casa, ora gli ottavi di Europa League contro il Feyenoord…
    “E’ una grande soddisfazione. Ma andare a Rotterdam sarà un altro viaggio molto faticoso, sia a livello fisico sia mentale. Vi spiego un’altra cosa”.

    Prego.
    “Quello col Rennes era uno spareggio, un turno a eliminazione diretta, giusto? Bene, se fossimo stati eliminati avrebbe voluto dire non poter uscire dall’Ucraina fino minimo all’estate. Le coppe europee sono ciò che ci permette di varcare i confini, senza non potremmo. E chi ha famiglia all’estero in quel caso dovrebbe decidere se lasciarla fuori e non vederla per quattro mesi o portarla in Ucraina con sé, assumendosi tutte le responsabilità del caso. Ci sono quotidianamente di questi pensieri, la logistica è ai limiti dell’impossibile. Ma noi giochiamo, andiamo avanti”.

    E il popolo ucraino, siamo sicuri, ne andrà fiero, in un momento come questo. Ma gli stadi sono aperti?
    “No, purtroppo no. Sono tre anni, praticamente, che giochiamo senza pubblico. Giusto qualche partita al 30-40% di capienza nel periodo meno virulento della pandemia, ma poi è arrivata la guerra e chiaramente non è più possibile andare allo stadio a vedere le partite. In Champions ed Europa League invece è diverso, sia a Varsavia sia a maggior ragione in trasferta. Però accade che passiamo dai 60mila di Madrid agli stadi vuoti in campionato, come quello di Mynaj in periferia. L’unico modo di vedere il campionato è in tv, mentre le partite di coppa a Varsavia vengono seguite da anziani, donne, ragazzi, o chiunque abbia per qualche motivo dei permessi per uscire dai confini. Il calcio è un momento di svago, poi quando arriva una vittoria come quella di ieri è una vittoria per tutta l’Ucraina, che vede quello che stanno facendo questi ragazzi poco più che ventenni e si inorgoglisce. Ci sarebbe da farci un film o scriverci un libro”.

    Dentro il viaggio dello Shakhtar: 'Calcio, mercato e speranza, come si ricostruisce un club dalle macerie'

    Per adesso c’è questa intervista, ma di certo il soggetto lo meriterebbe. E ora ci racconti di questi giovani: dalle ceneri del conflitto e dell’esodo degli stranieri, sono sorti Mudryk e i suoi fratelli.
    “I giovani bravi giocavano anche prima. O comunque erano in rosa, avevano degli spazi. Poi sono partiti i brasiliani e abbiamo dovuto attingere a piene mani ai nostri ragazzi, tra quelli che c’erano e quelli che sono rientrati dai prestiti, e loro hanno risposto alla grande. Ma sarebbe stata solo questione di tempo. Non è un caso se l’Ucraina è campione del mondo Under 20. Credetemi: se non fosse successo quello che è successo, con la squadra che avevamo l’anno scorso, le conoscenze di De Zerbi, più i giovani che stanno venendo fuori, nel giro di due o tre anni saremmo arrivati in semifinale di Champions League, avremmo dato fastidio al mondo”.

    Mondo che sta conoscendo Mudryk, che però al Chelsea non ha avuto l’impatto che ci si aspettava. Lei che lo ha visto crescere, se lo spiega?
    “Mudryk è andato in una società che sta cambiando tantissimo, ha fatto un mercato faraonico ma il rovescio della medaglia è che ora Potter si trova tra le mani una sorta di babele da mettere in ordine. Ci vorrà tempo. Poi non dimentichiamoci che noi col campionato siamo fermi da novembre, riprendiamo tra qualche giorno, abbiamo giocato solo amichevoli nel frattempo. Mudryk è stato preso e ha giocato subito, ma due mesi senza partite vere sono durissimi. Il ragazzo è fortissimo sia tecnicamente sia di testa, ma va messo in condizione di rendere per le qualità che ha. Credo che farà vedere a breve tutto quello che ha fatto con noi”.

    Mudryk ormai era fuori portata, ma crede che ci sia qualche possibilità di vedere qualcuno dei vari Trubin, Bondar, Bondarenko un giorno in Serie A?
    “Noi non vogliamo cedere nessuno dei nostri migliori giocatori. Nessuno. Eravamo decisi anche a tenere Mudryk, ma la cifra che è arrivata non potevamo non accettarla, anche se col cuore a pezzi. La nostra idea è andare noi a prendere i giocatori dagli altri club, non il contrario. Ci riteniamo a quell’altezza lì, non siamo obbligati a vendere. Ovviamente non tratteniamo nessuno, ci mancherebbe, le offerte quando arrivano si valutano tutti insieme. La Serie A, a quel che mi sembra di vedere ultimamente, non è che sia messa benissimo dal punto di vista economico… Ed è proprio sul mercato che i club italiani dovrebbero muoversi diversamente, un pochino prima. Se arrivi quando il talento è esploso in Champions League poi non devi piangere se le inglesi ti soffiano tutto quanto in pochi istanti, è così, hanno le risorse per farlo. Non voglio fare di tutta l’erba un fascio, chiaramente, ma in moltissimi casi è successo questo”.

    Dice che è già tardi?
    “Mi permetto di evidenziare il nostro ultimo affare in entrata. Siamo andati su un centravanti venezuelano che fino a pochi giorni fa era al Sudamericano sub-20, Kevin Kelsy, ci abbiamo puntato forte ed è stato lui a battere il rigore decisivo contro il Rennes. Un ragazzino di 18 anni. Ci abbiamo investito, lo facciamo giocare. Se noi aspettiamo che faccia 25 gol in Uruguay con il Boston River, o con qualsiasi altra squadra sudamericana, poi ci chiedono 20-30 milioni e non lo prendiamo più. Capite? Bisogna arrivare per tempo, fare l’offerta giusta e proporre qualcosa di importante. Anche in una situazione come questa”.

    Infatti, perché immaginiamo che la guerra sia un ostacolo forte al suo mestiere, quando si tratta di approcciare i giocatori. Soprattutto stranieri.
    “Il nome dello Shakhtar tira ancora, abbiamo venduto negli anni grandissimi giocatori ai top club e proponiamo un progetto serio e ambizioso, ma le condizioni in cui versa il Paese rendono indubbiamente meno appetitosa, per uno straniero, la nostra offerta. Ma noi lavoriamo al massimo sperando che tutto si risolva il prima possibile e puntando in alto per tornare quelli che eravamo e fare calcio come si deve. Nonostante qualche regola, diciamo discutibile, che ci complica ancora di più la vita, se mai ce ne fosse bisogno”.

    Allude alla possibilità di lasciare la Russia e l’Ucraina anche al di fuori delle regolari finestre di mercato?
    “Sì, ma non è quello il punto, se un ragazzo non si sente al sicuro è anche giusto che si dia la priorità alla serenità della persona. Però se un giocatore si accasa per un anno da un’altra parte per via della guerra rimanendo sotto contratto con noi, perché non possiamo estendere automaticamente di un anno l’accordo? Così rischiamo di perdere il nostro capitale. Ci sono giocatori (Teté e Solomon, ndr) che scadono a dicembre del 2023 e sono in prestito (a Leicester e Fulham, ndr) per via della guerra. E poi magari se li prendono gratis, quando noi ci abbiamo investito. Questo è un meccanismo che ci danneggia enormemente, prendere i brasiliani che ci hanno resi tanto famosi diventa difficilissimo perché non abbiamo più la colonia e per via di questa regola”.

    In ordine sparso, e sicuramente dimenticando qualcuno dei brasiliani lanciati dallo Shakhtar: Douglas Costa, Luiz Adriano, Willian, Alex Teixeira, Fred, Taison, Elano, Ilsinho, Bernard, Fernandinho. Ora ce n’è solo uno, Taylor. L’ultimo della dinastia.

    Decidiamo di fare un’ultima domanda: dove si trova la forza di andare avanti su una strada così dissestata?
    “Non pensate che il calcio sia un modo per sfuggire alla gravità della situazione. Il campionato lo si è fatto ripartire per dare un senso di speranza, di continuità, di futuro e di pace. Abbiamo dato un senso a tutto. E’ un segnale che la vita continua, che c’è luce anche nell’ora più buia. Noi dobbiamo aiutare facendo quello che sappiamo fare. Sacrificandoci, certo, ma non stando fermi. Che poi i sacrifici che fa la popolazione in guerra sono di gran lunga maggiori. Dopo sei mesi, non dico che ci siamo assuefatti, ma cerchiamo sempre di metterci il massimo, sia per staccare per 90 minuti, sia per fornire la nostra migliore risposta possibile”.

    Chi lo sa, magari un giorno un film ce lo faranno davvero.

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