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  • Di Carlo:| Eroe per una domenica

    Di Carlo:| Eroe per una domenica

    Con il calcio ha chiuso, e pure da parecchio. «Per due anni ho fatto l’allenatore: nun ero bbono e nun pijavo ’na lira... No, non è la verità: è che, lì a Acilia, campionato di Eccellenza, ognuno faceva come gli pare, nessuno rispettava niente. Così ho detto basta, anche perché avevo capito che con il mio carattere l’allenatore vero non l’avrei mai potuto fare. Adesso ho un ristorante, “Il Frantoio”, a Ostia Antica, vicino alla Longarina, vicino ai campi di Totti: la Roma la seguo, ma da lontano, senza grosso interesse. Una volta al ristorante è venuto quello piccolino, quello cileno.. sì, Pizarro: manco l’avevo riconosciuto...».

    Tonino Di Carlo, classe 1962, «e da allora non è più nato uno con gli occhi belli come i miei...», centrocampista mancino dal tocco vellutato e dall’affidabilità quanto meno incerta («Ci tengo a precisare una cosa: non sono mai stato un atleta. Un giocatore sì, un atleta mai...»), nel settembre del 1984 andò a segno contro la Lazio in Coppa Italia: una botta di sinistro dal limite con il pallone che terminò la sua corsa nel sette alla destra di Orsi, «un gol che è entrato nella storia, visto che sono passati ventisei anni abbondanti e tu ancora mi cerchi...», racconta al telefono mentre porta a passeggio il cane Niki, uno dei suoi amici a quattro zampe, «ho anche un cavallino, Niki B, che corre a Tor di Valle e che mi leva un sacco di soldi e di tempo, e una puledrina che ancora è alla doma», spiega.

    Era il primo derby di Sven Goran Eriksson (e di Roberto Clagluna) sulla panchina della Roma, era anche il primo derby in prima squadra per Tonino. «Dopo la partita, tutti a chiedermi come avevo fatto, cosa provavo: mi sembravano matti. Così io risposi: guardate che in Primavera e in serie A le porte sono lunghe e larghe allo stesso modo, quindi perché vi meravigliate tanto se ho segnato? In realtà, ero un pischello e lì per lì non mi resi conto di quello che avevo combinato.

    Quel gol, il raddoppio della Roma dopo il rigore di Iorio, me lo sto godendo sempre più anno dopo anno che quella domenica pomeriggio. Quel giorno ero più contento per non aver tradito la fiducia di Eriksson, che mi aveva fatto giocare da titolare, che per il gol in se stesso. Ci mancavano Conti, Pruzzo, Cerezo e Ancelotti, e Falcao si fece male dopo pochi minuti: vincere quella partita fu una vera impresa». Genio e tanta sregolatezza, ecco il perché di una carriera mai sbocciata per intero. «Il Di Carlo di oggi? C’è, l’ho visto in tv: è quel mancino del Palermo, Ilici me pare. Ah, si chiama Ilicic? Va bene, lui. Solo che adesso è facile giocare in mezzo al campo: con la zona ti danno il tempo di accenderti una sigaretta prima di dar via la palla, ai tempi miei invece l’avversario ti stava sempre attaccato, ti sbuffava addosso, ti menava, non ti mollava mai. Alla fine, ho mollato io».

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