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  • Fazio, perché le fabbriche possono ripartire e il calcio no? Il coronavirus non è uguale per tutte le aziende?

    Fazio, perché le fabbriche possono ripartire e il calcio no? Il coronavirus non è uguale per tutte le aziende?

    • Fernando Pernambuco
      Fernando Pernambuco
    Adelante, Pedro, con juicio” questo il succo delle ultime decisioni governative. Si riapre, ma senza esagerare, si torna a circolare, ma senza strafare. Non poteva, comunque,  non seguire  dibattito. Lasciamo da parte i dettaglisti, gli eterni scontenti  (“Insomma devo continuare a fare la fila per entrare nei negozi”, “Quindi se sono il 26 esimo a salire sull’autobus, mi fermano e chi lo fa deve avere una divisa?” ecc.) e concentriamoci sul tema delle riaperture aziendali. Diciamo subito che ogni decisione produrrà la sua buona dose di scontenti.

    Nel caso dell’azienda calcio professionistico si è deciso di posporre la ripresa dell’attività atletica con susseguente ritardata ed eventuale riapertura del campionato. D’accordo, l’emergenza non è finita, ma non siamo a marzo, con numeri preoccupanti e una vaghezza di strategie altrettanto preoccupante. Non siamo ai reparti di terapia intensiva intasati e ai militari che trasportano le bare. Non siamo nemmeno alle ospedalizzazioni sfrenate, al ricovero dei malati nelle residenze anziani, ai pochi tamponi della Lombardia “contro” i tre tamponi a contagiato e ai prelievi sierologici di Parma e Padova. Si dovrebbe capire, pur nell’atomizzazione del “fai da te” regionale (se ne riparlerà in futuro, speriamo!) che oggi il modello “vincente” pare sempre più quello veneto, messo in pratica dal Prof. Crisanti: ovvero isolamento domiciliare, sorveglianza epidemiologica, tracciamento degli infetti, combinazione diagnostica tamponi/siero. Il tutto grazie a una presenza capillare di medici pubblici sul territorio. La lezione è semplice: gli scienziati di Padova a cui si sono affidati i politici veneti avevano ragione, mentre i confindustriali (volevano il tutto aperto e le cure ospedaliere) e i loro esperti avevano torto. Allora teniamo tutto chiuso? No, si riapre con cautela, con attenzione per le ben note necessità di non far morire il lavoro.

    Dico questo non per dare pagelle col senno di poi, bensì per considerare come, dopo tre mesi di pandemia, abbiamo, oggi, importanti indicazioni mediche (alcuni farmaci come anticoaugalanti e antiffiamatori si sono rivelati efficaci) ed epidemiologiche che possono, insieme alla riapertura programmata, cambiare il panorama. Pensare di riaprire e far ripartire la ripresa aziendale. Va detto, però, che nel caso dell’azienda calcio, qualcosa non quadra. Difficile entrare nel merito della decisione (sì o no alla ripresa) quando per esempio altri si comportano variamente e ogni settimana si cambia: in Francia si riprenderà a settembre? In Olanda si chiude. In Spagna gli allenamenti riprenderebbero il 4 maggio, la Bundesliga spinge per tornare a giocare presto. La questione, come si vede, travalica i confini: non si tratta di essere per Lotito, che voleva riprendere un mese fa, né per Cellino che chiedeva la chiusura definitiva un mese fa. Non si tratta nemmeno di gridare allo scandalo o di esaltarsi perché la chiusura permane.

    Si tratta di stabilire se il calcio professionistico sia considerato un’azienda o no. Un’azienda che paga 1 miliardo e 400 milioni di euro di tasse allo Stato, che mantiene, in pratica, gran parte degli altri sport, che dà lavoro a circa 150mila persone, che produce un indotto impressionante facilmente ipotizzabile (dai trasporti ai consumi indiretti). Un’azienda, per andare nel dettaglio, che nel 2018, ha generato un fatturato diretto di 4,7 miliardi di euro (12% del Pil del calcio mondiale) incidendo per il 70% e più rispetto al gettito fiscale complessivo generato dall’intero comparto sportivo nazionale. Insomma, il calcio professionistico italiano fa molto comodo allo Stato, agli altri sport e a un gran numero di lavoratori con stipendi medi che nulla hanno a che fare con quelli della media dei giocatori. Non sono gli stipendi di Ronaldo, né di Lukaku, né di Dybala e nemmeno, con tutto il rispetto, di Lucioni o Colombi. Però, mai come in questo momento, la Serie A sconta l’effetto populistico o demagogico (chiamatelo come volete ) dei paperoni che prendono milioni per correre dietro a un pallone. Ma quanto crediamo che guadagnino un amministrativo della Juventus o un magazziniere del Genoa? Sì, perché, al di là della difficile scelta se cominciare a riaprire o no, gira un’aria di sufficienza e di disprezzo verso il calcio e non solo in Italia. Pensate al Ministro dello Sport Francese, Roxane Maracinen, che ha detto: “In questo momento a me dello sport non frega niente” e, in fondo, anche al nostro Ministro Spadafora, da sempre tiepido, ora temporeggiatore (lo capiamo), ora indignato contro “certi Presidenti della Serie A, che mi telefonano, che fanno pressione! Con me queste cose non funzionano!”. Pressione, richieste o minacce? Perché, nell’ultimo caso, si va dalla magistratura non in televisione. Credete che i Presidenti della Confcommercio, dei piccoli e grandi industriali non chiamino i politici, non manifestino preoccupazioni, non sciorinino cifre impressionanti ai ministri? Perché se non lo facessero, non sarebbero all’altezza del loro compito. Un magazziniere, un fisioterapista, un addetto alla manutenzione del manto erboso, “valgono” meno di chi assembla in una catena di montaggio? Già: il distretto della rubinetteria di Novara va giustamente considerato, compreso, ci mancherebbe altro, ma la Juve miliardaria, il pittoresco Lotito, i ricchi cinesi dell’Inter... che pretendono? Peccato che non siano soli, ma rappresentino la risicata punta dell’iceberg, sotto la quale stanno migliaia e migliaia di lavoratori.

    Se Fabio Fazio si fosse trovato a intervistare non il Ministro dello sport, ma il Presidente della Confidustria, avrebbe avuto il coraggio di porgli la seguente domanda: “Ma è il caso di riaprire le fabbriche? seguita dalla considerazione: “Perché che si fa? Se si ammala un operaio dovremmo chiudere tutta la fabbrica!”. Invece il noto conduttore televisivo ha offerto un assist alla chiusura calcistica evidenziando proprio l’impossibilità (il possibile contagio  d’un calciatore) di riprendere le attività. Per carità, è un’opinione, ma il Covid-19 è uguale per tutti o almeno sembra?

    Ora, al di là del fatto che la Lega di Serie A garantiva almeno tre tamponi in breve lasso di tempo, esami sierologici, allenamenti separati, resta il fatto dei due pesi e delle due misure: è normale, naturale riaprire le manifatture, in cui per esempio, non pensiamo possano essere ridisegnati i distanziamenti delle catene di montaggio. È, invece, innaturale cominciare a riprendere ad allenarsi con distanziamenti e attenzioni mediche stringenti. Insomma, il calcio professionistico non è un’azienda di cui preoccuparsi, è il circo di un manipolo di privilegiati, di presidenti cialtroni e pazzi. E’il vento che tira, è Il tempo che fa.

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