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  • Ferlaino si racconta: 'Così comprai Diego'

    Ferlaino si racconta: 'Così comprai Diego'

    Trent’anni fa, Almanacco del calcio 1981, campo base del nostro viaggio alla ricerca del calcio perduto, Corrado Ferlaino era presidente del Napoli già da una vita. Di Maradona e dell’epopea degli scudetti non c’erano ovviamente tracce. Ecco l'intervista rilasciata a "Il Corriere del Mezzogiorno"

    Ingegner Ferlaino ricorda questa data 18 gennaio1969.

    "Certo. Quel giorno mi telefonò il centralinista del Calcio Napoli per dirmi che il comandante Lauro aveva ordinato di farmi diventare presidente".

    Strana investitura.

    "Il comandante non trovava chi contrapporre ad alcuni azionisti nemici e pensò di mandarmi allo sbaraglio visto che possedevo una sola azione. Credeva di avere trovato la pecorella da far sbranare dai lupi".


    Invece?

    "Invece mi diedi da fare e rastrellai i due terzi del pacchetto di maggioranza della società diventando presidente effettivo".

    Chissà Lauro!

    "Alla fine entrammo in sintonia. Achille Lauro è stato un personaggio eccezionale che Napoli non ha capito. Gli hanno intitolato semplicemente un vicoletto a Secondigliano, che ora è pieno di spazzatura".

    Altra data: 30 giugno 1984.

    "Fu quando acquistai Maradona".

    E come le venne l’idea?

    "In occasione di una partita internazionale, mi pare fosse a Zurigo, Federico Sordillo, che all’epoca era presidente della Federcalcio, mi chiese: ma allora chi comperi per rinforzare il Napoli? Io, non avendo un’idea, sparai il nome del più forte calciatore in circolazione: prendo Maradona, gli dissi, e lui, che non si teneva mai niente, lo spifferò subito ai giornalisti. Così, senza volerlo, mi trovai ad avere promesso l’arrivo di Diego".

    Com’era il suo Maradona?

    "Era forte in campo e debole fuori dal campo. A Napoli pensavano che Diego e san Gennaro fossero fratelli".

    Maradona ha comunque fatto una brutta fine. Lei non ha sensi di colpa? Avrebbe potuto vigilare.

    "Buenos Aires è una città strana. La movida notturna è da Dolce vita e in generale c’è una gioventù abbastanza trasgressiva. Diego è cresciuto in un ambiente del genere, idolatrato da tutti... Io poi ritengo che sia ciascuno di noi a decidere del suo destino".

    Dal 1969 al 2002, con una piccola interruzione, lei ha fatto il pieno di Napoli. Che cosa le ha dato il calcio?

    "Che cosa mi ha dato o che cosa mi ha tolto? La cosa più bella, una volta uscito di scena, è stata riappropriarmi della domenica. Prima la domenica non mi apparteneva".

    Maradona, Savoldi, Krol, Bagni, Giordano, Careca, Alemão, Zola, eccetera. Il suo Napoli è stato caratterizzato dai campioni. Quali i tre più grandi?

    "Con Diego fuori concorso, direi Careca, Zoff e Ferrara".

    Come nacque il miracolo Napoli?

    "Tutti parlano degli scudetti di Maradona ma tenga presente che per ben tre volte il mio Napoli rischiò di vincere lo scudetto. Una volta ci sfuggì a San Siro in una partita contro l’Inter in cui Gonella ci fece perdere. L’episodio è ricordato nel libro che Peppino Prisco scrisse sulla sua Inter: tra il primo e il secondo tempo Mazzola andò da Gonella e gli fece cambiare il modo di arbitrare. Così noi che eravamo in vantaggio per 1-0, perdemmo per 2-1. Qui però si dovrebbe allargare il discorso, parlando di calcio in generale..."

    Sarebbe a dire?

    "Allora i grandi club erano molto protetti. Se un arbitro sbagliava con il Foggia non succedeva niente, se sbagliava con le milanesi o con la Juve si scatenava un pandemonio. Oggi è diverso: ci sono le tv e gli errori li vedono tutti. Oggi tutto alla fine si compensa, è un altro calcio. La televisione ha fatto scomparire la sudditanza psicologica. Gli arbitri sbagliano senza malizia".

    Lei con il calcio ha guadagnato?

    "Guadagnato? Ci ho perduto moltissimo. Ai tempi di Maradona incassavamo 20 miliardi e ne spendevamo 35 di soli ingaggi. Poi nel ’ 93 ci fu la crisi edilizia e dovetti ridurre i miei interventi. Comunque, fossi rimasto io, il Napoli non sarebbe mai fallito".

    Bianchi e Bigon sono i suoi due allenatori di successo. Ce li descrive?

    "L’allenatore migliore è quello che vince le partite e Bianchi ci ha fatto vincere uno scudetto. Bigon invece lo abbiamo inventato: quel Napoli non aveva bisogno di un allenatore maestro, faceva tutto la squadra".

    Lo scudetto di cui va più orgoglioso?

    "Il secondo, quello del ’90. Lo considero una mia vittoria personale. Ci fu una grande battaglia con il Milan, che alle spalle aveva Mediaset. Noi invece avevamo a favore la Rai visto che Biagio Agnes, il d. g., era amico mio. Alla fine la sfida mediatica la vincemmo noi perché allora la Rai era più forte di Mediaset, faceva più opinione"
    .

    In quello scudetto fu decisivo pure Carmando, il vostro massaggiatore.

    (ride) "Anche questa è una favola. Il calcio ama le favole. La verità è semplice: c’era una regola per cui la squadra che aveva un giocatore ferito vinceva a tavolino. E Alemao fu davvero ferito da una monetina. Carmando non c’entra nulla. Dopo quell’episodio i grandi club del Nord si affrettarono a far cambiare quella regola".

    Ha per caso un rimpianto?

    "Il mio unico e vero rimpianto è quello di non essere stato in grado di far comprendere come in quegli anni di grande euforia fosse fondamentale il rilancio della città. Napoli ha vinto gli scudetti, non c’era monnezza, c’era turismo e la gente era felice. Ora Napoli è veramente in ginocchio, sta affondando. Questo è il periodo peggiore degli ultimi 300 anni. Napoli è un malato terminale che ha bisogno solo di un miracolo di san Gennaro. Ma san Gennaro è disposto a farlo?".

    Ingegnere, che cosa le manca di quegli anni d’oro?

    "Certamente la gioventù. E poi il tempo che ho sacrificato. Tutti i sabato sera a cena con i giocatori, sempre riso in bianco e niente vino per dare il buon esempio. Con il mio Napoli avrò avuto dei successi, ma quanti sacrifici..."


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