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  • George Best, il talento fragile: 14 anni senza il campione che ha vissuto la vita come una finale

    George Best, il talento fragile: 14 anni senza il campione che ha vissuto la vita come una finale

    • Davide Cavalleri

    Scrivere un articolo su (o in memoria di) George Best potrebbe apparire un esercizio letterario fin troppo semplice. Basterebbe attaccare e chiudere con una delle sue (spesso inflazionate) frasi ad effetto e metà del lavoro sarebbe già fatto. Non sarebbe difficile infatti attingere a piene mani dal suo vastissimo catalogo di dichiarazioni pungenti e dissacranti ormai passate alla storia: "Ho speso un sacco di soldi per alcol, donne e macchine veloci… Tutti gli altri li ho sperperati"; oppure "Ho sempre voluto essere il migliore in tutto: in campo il più forte, al bar quello che beveva di più"; e ancora "Se io fossi nato brutto, non avreste mai sentito parlare di Pelé"


    LA PARTITA DELLA STORIA - Tutti hanno parlato di George Best. Il personaggio, in effetti, si presta molto bene ai racconti romanzati e ricamati ad arte. Eppure, per raccontare di Georgie, per capirne fino in fondo l’essenza potrebbe essere sufficiente recuperare la partita più importante della sua storia: finale di Coppa dei Campioni 1968. A Wembley scendono in campo Manchester United e Benfica. Gli inglesi tornano a giocarsi un titolo europeo dopo il disastro aereo del 1958; i portoghesi là davanti hanno Eusebio, uno dei calciatori più talentuosi di tutti i tempi.

    Best è per distacco il migliore in campo (nonostante la doppietta di Bobby Charlton). Quella sera, davanti a 92.000 spettatori, il ‘quinto Beatle’ si è, per certi versi, messo a nudo, mostrandosi per quello che è: come calciatore e come uomo.

    GENIO E SREGOLATEZZA - Georgie è immarcabile: per fermarlo i portoghesi sono costretti a spendere falli anche piuttosto cattivi. Lui ci sguazza: continua a puntare l’uomo, salta l’avversario con cambi di passo e finte da campione; si fa stendere e poi reagisce andando a muso duro per riscaldare l’atmosfera come fosse in un pub dei sobborghi di Manchester. È irriverente, quasi spocchioso. Segna saltando Henrique, il portiere del Benfica, con un imbarazzante sombrero e insaccando a porta vuota. Best è questo in fondo: genio e sregolatezza, carisma ed estrema fragilità, leggerezza e insofferenza, bellezza e irriverenza. Provocatore non solo nelle reazioni scomposte, ma anche nel modo di giocare: gioca a 100 all’ora, rischia ogni giocata come stesse dribblando i suoi coetanei tra i vicoli di Belfast. Non sente la pressione: sa di essere il più forte e deve dimostrarlo, prima di tutto a sé stesso. Come fosse l’ultima partita della sua vita.

    NESSUNO COME LUI – La vincerà da solo quella partita. Troppo forte, troppo affamato. Perderà, come lui stesso dichiarò, la partita più importante: quella contro l’alcool. Il personaggio di Best sembra essere scritturato precisamente lungo queste direttrici che ne hanno drammaticamente segnato la fragile vita: il fascino, il sarcasmo, l’autoironia, il talento infinito, la polemica, ma soprattutto le donne, l'alcol, gli eccessi, la vita vissuta senza regole e senza limiti. Proprio come quella partita di Coppa campioni contro il Benfica. George Best è stato tutto e il contrario di tutto: è stato il talento più cristallino della sua epoca e senza dubbio il più sprecato di tutti i tempi. È stato l'idolo che tutti avrebbero voluto essere, ma l'uomo i cui panni nessuno avrebbe voluto vestire. George Best è stato la leggenda piegata alla fragilità dell’uomo. Troppo fragile per essere un campione, troppo forte per non esserlo.


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