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  • Heysel, la testimonianza di chi c'era

    Heysel, la testimonianza di chi c'era

    • Nicola Balice

    Claudio Chiarini, il 29 maggio 1985 aveva 32 anni. Era presente all'Heysel ed è uno dei sopravvissuti alla tragedia del settore Z (foto saladellamemoriaheysel.it). Calciomercato.com ha raccolto la sua testimonianza in occasione del trentennale dalla tragedia dell'Heysel: a distanza di dodici mesi vi riproponiamo questo importante ed intenso ricordo di quella drammatica giornata.

    Sono passati trent'anni, ma ricordo tutto come se fosse appena capitato. Faccio una premessa: quella di Bruxelles non era la mia prima trasferta, alle spalle avevo già diverse finali europee. Dico questo perché a salvarmi forse fu proprio la mia esperienza. Girando per l'Europa a quei tempi non si sapeva mai a cosa si potesse andare incontro, un po' di preoccupazione c'era pensando a quanto capitato l'anno precedente a Roma. Ma alla partenza, vedendo come i pullman fossero composti da famiglie, bambini, donne mi son tranquillizzato pensando che un tale gruppo mai sarebbe stato messo a contatto degli hooligans. Invece mi sbagliai. Entrammo allo stadio nel primo pomeriggio, arrivati in curva la prima cosa che mi balzò agli occhi fu la condizione della struttura: bastava pestare un gradone per far cadere pezzi di cemento. Non solo, dietro la curva c'era un cantiere aperto con assi, spranghe e altro materiale pericoloso da poter prendere per creare problemi. La porticina di accesso alla curva era talmente piccola che si passava massimo due alla volta: questo fu il secondo campanello d'allarme, come saremmo potuti passare da quell'imbuto in caso di emergenza? Un altro elemento di preoccupazione emerse quando vedemmo arrivare gli inglesi sul tetto del loro pullman già ubriachi fradici e liberi di entrare in curva con casse di birra senza alcun controllo. Intanto, fuori dallo stadio giravano appena quattro o cinque poliziotti a cavallo, di cui alcune donne. Un altro motivo di preoccupazione era la composizione del nostro settore, solo famiglie incapaci eventualmente di difendersi: eravamo persone inermi, separate dagli hooligans da una rete divisoria ridicola, di piccolo metallo e corda che sarebbe venuta giù solo tirandola come poi è tragicamente accaduto. In quelle ore, come d'abitudine a quei tempi, era stata organizzata una partitina tra ragazzini in maglia rossa contro altri in maglia bianca come a simulare la finale della sera, con gli stessi tifosi coinvolti in cori e sfottò: gli hooligans ne approfittarono per cominciare con insulti, lanci di sassi e terra. Ormai era chiaro che difficilmente si sarebbe potuti arrivare al fischio di inizio senza scontri, così io ed altri adulti più esperti ci posizionammo in prima linea per provare ad evitare il peggio ma parlare non serviva a niente. Quando iniziò il lancio di lattine di birre piene di sassi e terra, la situazione degenerò ma mai avrei potuto immaginare fino a che punto. Così, senza seminare panico, mi avvicinai al muro alla fine della curva, quello che poi crollò. Nel frattempo successe di tutto: ci vennero lanciati contro due razzi ad altezza uomo, io ho avuto la prontezza di issarmi sul muro mentre cominciavano le prime cariche studiate a tavolino secondo la strategia del “take an end”: caricando e tornando indietro non facevano altro che comprimere le persone verso campo e cancellate. Alcuni sono riusciti a saltare dentro il campo, con la polizia che addirittura manganellava i tifosi in questione. Io stesso dall'alto del muro ho tentato di tirare su un paio di persone per la mano mentre con un braccio provavo a restare in equilibrio ferendomi con del filo spinato, fino a quando ho dovuto lasciarli per evitare di essere risucchiato a mia volta. Proprio in quel momento partì una nuova carica, qui arriva il momento più duro da ricordare: ho dovuto voltarmi, prendendo la bandiera della Juve per i quattro lembi a mo' di paracadute per attutire il colpo e saltai fuori dallo stadio da un'altezza di quattro-cinque metri, una ventina di minuti o forse meno prima che il muro crollasse. Una volta sceso, ho capito che se i miei compagni di viaggio fossero usciti sarebbero andati verso il pullman come punto di ritrovo per difendersi: così andai subito lì, mimetizzandomi dietro agli alberi e fingendo di essere un tifoso inglese incrociando altri hooligans lungo quelle centinaia di metri, non era il caso di farsi vedere con i colori bianconeri. Sono riuscito a forzare la porta del pullman, da lì aspettai che lentamente arrivassero gli altri: finita la partita, senza renderci conto di cosa fosse accaduto, iniziò la triste conta sperando che gli assenti fossero solo feriti, infine il giro degli ospedali di Bruxelles e l'arrivo all'ambasciata per chiamare casa. Nessun cittadino belga ci permise di fare una sola telefonata, ci chiusero tutti porte e finestre in faccia. Solo tornati in Italia capimmo esattamente le dimensioni di quella tragedia, che segnò indelebilmente tutta la mia vita. Da quel giorno feci una promessa, non sarei più tornato a vedere una partita in uno stadio”.

    Di chi fu la responsabilità?

    “Dell'Uefa, prima di tutto. Dei tifosi del Liverpool per il massacro che hanno perpetuato quella violenza inaudita. Della prefettura di Bruxelles e della polizia per la mancanza di osservanza dei loro obbilghi. I biglietti del settore Z, che noi acquistammo da un'agenzia di viaggio non dovevano arrivare a noi ma essere distribuiti in Belgio ad aziende o forse Scuole Calcio, perché sono stati rivenduti? E pensare che sul biglietto c'era pure scritto che la Uefa non era responsabile degli avvenimenti dentro lo stadio, nonostante l'81% dell'incasso spettasse a loro”.

    Quella tragedia è servita a qualcosa, trent'anni dopo?

    “Purtroppo devo dire di no. Altri paesi hanno cambiato, in termini di atteggiamento e strutture. Se guardiamo in Italia, basta la testimonianza quotidiana di ciò che accade negli stadi e nei campi di tutte le categorie: le società non intervengono e a volte sono anche conniventi, la governance sportiva e politica non ha mai preso decisioni forti, a livello culturale siamo inesistenti. Quello che ho vissuto all'Heysel è doppiamente doloroso se penso che trent'anni dopo siamo ancora fermi lì, il mondo va avanti quindi è come se andassimo indietro. Non è il 2015, è il 1985 punto zero”

    La partita si doveva giocare?

    “Secondo me è stato giusto giocare. La polizia era scarsa e incapace, forse sarebbe arrivato l'esercito ma chissà quando. Non si sapeva il numero di morti o feriti ma quanto capitato era sotto gli occhi di tutti: se non si fosse giocato sarebbe scoppiata la guerra e una caccia all'uomo da parte degli ultras della Juve, la metà dei tifosi inglesi che a quel punto sarebbero stati in nettissima minoranza sarebbero rimasti sul terreno. Ad essere sbagliata è stata la gestione successiva: il giorno dopo non doveva essere sollevata al cielo la Coppa in maniera trionfale, nei trent'anni seguenti è stato fatto poco o niente da parte della Juve per fare in modo che fosse fatta giustizia. Capisco le cosiddette ragioni di stato, in fondo capisco anche perché la verità sia stata sottaciuta, ma per quelle 39 persone che hanno involontariamente lasciato la vita per amore della Juve sarebbe servito più rispetto e memoria. Se lo hanno fatto i tifosi (si commuove, ndr), perché dall'alto non arriva un segnale indelebile che rimanga nel tempo, che vada oltre due messe in trent'anni?”


    Intervista pubblicata il 29 maggio 2015

    @NicolaBalice

     

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