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  • Il giorno che Berlusconi scese dal cielo

    Il giorno che Berlusconi scese dal cielo

    • Marco Bernardini
    Venerdì 18 luglio di trent’anni fa. Attenzione alla data: 1986. Secondo la Kabala anche i numeri possiedono un loro linguaggio. Ebbene, basta invertire le ultime due cifre per ottenere il 1968. Due momenti storici scolpiti della pietra dell’Italia contemporanea e non solo. Due anni, come dire, fondamentali. Il 1968 è quello del Grande Sogno. Apparentemente durò il tempo di un sospiro come è destino per tutti i sogni. Il 1986, cioè la filosofia che si portava in pancia, riuscì a sopravvivere perché a differenza del primo era molto meno visionario e poetico. Non solo durò, ma crebbe spalmandosi, lungo il cammino di quasi venti anni, sopra tutti i settori “vitali” della nostra società facendone da metronomo: dalla politica all’informazione, dallo spettacolo al calcio fino al costume e alla cultura. Un autentico Anno Zero che venne inaugurato, a Milano, la mattina di quel venerdì quando Silvio Berlusconi scese dal cielo per riscrivere la Storia. Anche quella del pallone.

    Giuàn Brera, il maestro, si muoveva poco e malvolentieri da casa. Per andare al giornale, certo, e soprattutto quando i rari e fedeli amici gli proponevano serate culinarie ruspanti e ben innaffiate di rosso doc nella campagna del Pavese. Mi stupì un poco quando, la sera prima, mi chiese se per cortesia potevo passare sotto casa verso le nove del mattino. Sarebbe venuto con me all’Arena per assistere a quello che lui aveva già battezzato il più grande spettacolo di vendita diretta al pubblico organizzata dal Cavaliere. Brera abitava a due passi dal vecchio impianto dove, negli anni '50, giocava il Milan. Nessun problema. Cinque alle nove ero sotto il portone, insieme con il suo più caro e fedele allievo Gianni Mura. Ci avviammo a piedi verso il luogo del rendez vous. In cartellone c’era la presentazione della squadra rossonera appena tornata dall’inferno della Serie B, dove era precipitata per i pasticci combinati dal simpatico ma troppo disinvolto Giussy Farina.

    Cose mai viste a un raduno ufficiale. Almeno diecimila persone “acciugate” e con lo sguardo fisso verso l’arco di ingresso dell’Arena oltre il quale, secondo programma, alle dieci e trenta avrebbe dovuto comparire il pullman della squadra rossonera. I temporali estivi sono tremendi. Quello che scarica da nuvoloni neri come la pece una quantità assurda di acqua è quasi perfetto in quanto a malvagità. Diecimila persone fradice e a “mollo” in un tasso di umidità da pazzi. Nessuno si muove. Ad un tratto Cesare Cadeo, lo show man imbonitore dell’evento, piazzato al centro del campo chiede di fare silenzio e di osservare in alto. Tre puntini compaiono nel cielo e si fanno sempre più grandi. Il rumore dei motori non lascia spazio al dubbio. Sono tre elicotteri della scuderia Agusta. Quando sono sopra le diecimila teste, parte in stereo la musica. La cavalcata delle Walkirie di Wagner. Ancora oggi Giovannino Galli ricorda  che pensava di dover andare a un ritiro e che invece gli venne in mente “Apocalypse now” e per un attimo temette di dover andare in guerra. In effetti, il portiere non si sbagliava di molto. Non era la dichiarazione di guerra, ma l’annuncio di una rivoluzione che avrebbe sconvolto il calcio  e tutto il suo indotto. 

    Giuàn Brera, masticando il bocchino della sua pipa da mattino, commentò sottovoce: “Il Milan tornerà grande, ma poveri noi…”. Non compresi, lipperlì, cosa volesse intendere. Lo capii più avanti, strada facendo. Certo la storia degli elicotteri era curiosa. Soltanto una persona, fino a quel giorno, si poteva permettere di arrivare dal cielo per battezzare la sua squadra. L’avvocato Gianni Agnelli, che però atterrava nel parco del suo castello di Villar Perosa e non in mezzo al campo da gioco del paese. Comunque sia, ecco il nuovo Milan che non era ancora quello stellare, ma che era costato a Berlusconi venti miliardi per far arrivare gente come Galli, Bonetti, Massaro, Donadoni e Galderisi. Per il prologo della Grande Favola poteva andare bene così. La gente rispose “staccando” quarantacinquemila abbonamenti. Liedholm, a metà stagione, venne sostituito con Capello e il Milan si piazzò al quinto posto.

    Il bello, però anzi il meraviglioso stava maturando. Un anno appena di attesa.  Con i pezzi da novanta, Gullit e Van Basten, Rijkaard in testa e guidati da Arrigo Sacchi, il campionato successivo i rossoneri rimontano il Napoli e conquistano lo scudetto, prima dell’età dell’oro dei di inizio Anni '90 firmata da don Fabio. Zaccheroni e Allegri, successivamente, battezzeranno altri tricolore, ma la musica non sarà più quella wagneriana. Ora, viste le mille e una celebrazioni allestite per ricordare il “trentennale”, mi sembra più giusto e anche più normale rileggere il cammino del Milan “imperiale” lungo il tragitto parallelo ma anche comunicante compiuto insieme con il suo “imperatore”. Impossibile, ancorchè curioso, evitare di notare quanto e come le fortune peraltro assolutamente meritate della squadra rossonera siano sempre andate a coincidere con i momenti di maggior gloria politica e imprenditoriale dello stesso Silvio Berlusconi. E, naturalmente, viceversa. E’ proprio nel 1993, infatti, che il Milan punta verso lo zenit a livello sportivo aggiudicandosi scudetto e Supercoppa Italiana per poi, insieme con il bis già collezionato, aggiungere la stagione successiva la Coppa dei Campioni e infine esprimersi nel canto del cigno nel ’96 con l’ultimo scudetto di Capello.

    Sono anni  epocali anche per il Cavaliere che, dopo aver fondato l’impero di Mediaset, scende in politica con Forza Italia e, nel ’94, viene addirittura investito della carica di premier dando il via a quella che Indro Montanelli definì “la sciagurata era non di Berlusconi ma del berlusconismo che sarà una malattia endemica”. Ma non si può salire all’infinito. Avvicinarsi troppo al sole provoca cecità e poi si cade. Dopo il primo e trionfale “premierato”, quello successivo è ancora accettabile sia per il Cavaliere che per il suo Milan mentre gli ultimi due sono caratterizzati dal declino e infine dal tonfo finale. Non a caso, il 2011 è l’anno dell’ultimo scudetto che Allegri consegna alla storia rossonera anche grazie ai piedi di Ibrahimovic. Intanto, da quel momento in avanti, la storia parallela del “capo” si infittisce di pagine velenose e perverse che passano da qualcosa come venti processi, situazioni perlomeno imbarazzanti tipo Ruby e olgettine assortite, dìvorzio miliardario, tragedia imprenditoriale Mondadori, sospetti di  collusioni mafiose, netta inversione del fascino politico e ideologico. Un Titanic che i topi (falsi amici e compagni) abbandonano in fretta e furia infischiandosene del “re” che è nudo oltreché sempre più solo. Badate, non vi è nulla di particolarmente originale in questa lunga vicenda che rappresenta perfettamente la metafora della vita e dei suoi protagonisti. Anche quelli più grandi da Alessandro a Cesare e a Napoleone Bonaparte. Quelli scesi dal cielo per riscrivere la storia. Ora chissà come e su quale mezzo di trasporto arriveranno i cinesi? Se arriveranno….

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