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  • Il grande mistero della Juve di Maifredi

    Il grande mistero della Juve di Maifredi

    • Marco Bernardini
    Caro Gigi (Maifredi), aspettando Bologna-Juventus,  ti scrivo così mi rilasso un po’. Proprio come i primi mesi di quella stagione 1990-91, a Torino,  quando era troppo divertente guardare, da bordo campo, i tuoi allenamenti votati alla “zona pura” e umanamente gratificante, alla fine del lavoro, parlare con te un po’ di pallone ma soprattutto del più e del meno. A scanso di equivoci e per i lettori che non possono sapere. Non esiste il minimo di ironia in quello che sto scrivendo per definire il rapporto normale tra un allenatore anomalo e un giornalista altrettanto anomalo incontratisi per caso in un luogo tutt’altro che anomalo  e tabù come le necropoli pellerossa:  casa Juventus.

    Già, ma quale Juve? Quella che l’Avvocato, sorprendendo tutti,  decise di rivoltare come un pedalino. Era calato il sipario su “Italia Novanta” e, per l’ennesima volta, Gianni Agnelli ritenne opportuno verificare se Luca Cordero di Montezemolo, architetto di quei Mondiali non ancora “indagati”, fosse finalmente diventato grande. Giampiero Boniperti con l’intero suo staff (Pietro Giuliano, il ragionier Secco e Piero Bianco) obbedì alla consegna e si fece da parte. A Montezemolo la gestione della società bianconera e il ruolo di azionista di maggioranza (la carica di presidente venne attribuita a Chiusano).  Da Roma arrivarono Nello Governato ed Enrico Bendoni a completare il team. Grandi investimenti sul mercato. Uno su tutti Roberto Baggio, il meglio che si potesse sognare. Dino Zoff, seppur freschissimo di Coppa Uefa vinta battendo la Fiorentina ad Avellino, venne ritenuto mediaticamente poco funzionale per l’immagine del nuovo look. Dino se ne andò in silenzio portando con sé  l’ombra di Gaetano Scirea, un macigno troppo pesante per la coscienza bianconera. La rivoluzione doveva essere totale e radicale. Arrivasti tu. Gigi Maifredi profeta del pallone che vince divertendo. A Bologna, la domenica del congedo, il Dall’Ara era  pieno come un uovo. Tutti in piedi a gridare il tuo nome. L’emozione fu così intensa che le telecamere ti inquadrarono mentre, in panchina, piangevi come un bambino. In quel momento  avrebbe dovuto veder la luce  la “Juve champagne” come chiamavano il tuo calcio. L’Avvocato, come il Padreterno il settimo giorno, osservò compiaciuto la sua opera. Lui apprezzava lo champagne anche se beveva solo “Philipponat” e non la “Veuve” per la quale tu eri stato rappresentante. E come segno di benvenuto ti vennero consegnate le chiavi di una Ferrari nuova di fabbrica rosso fuoco. Intanto, anziché un capolavoro di neonata, nacque un aborto.

    Vedi, caro Gigi, sono passati venticinque anni e ti garantisco che, malgrado abbia cercato di analizzare più di una volta e anche a distanza di tempo le possibili cause del più grande fallimento che la storia bianconera ricordi, non sono riuscito a venirne a capo del teorema e né a farmene una ragione. Ancora oggi, ricordando, ci capisco niente. Posso soltanto azzardare congetture. L’Avvocato, ancora una volta, aveva voluto vedere in Montezemolo ciò che non era e che soltanto alla Ferrari sarebbe poi diventato. Una società come la Juventus non poteva passare dalla gestione bonipertiana del certosino e piemontese lavoro quotidiano a quella per delega due giorni a settimana “made in Rome”. Tu che, abituato a Bologna e alla grande famiglia dove Pecci e il mitico Villa ti facevano da parafulmine,  ti eri illuso di poter replicare il clima da “amici all’osteria” e da “una partita di calcio non è una guerra”, non avevi messo in conto che dopo il tremendismo del Trap e  il silenzioso perfezionismo di Zoff quella filosofia “provinciale”  poteva essere scambiata per faciloneria e per superficialità. Eppoi l’errore più grande e grave. Puntare tutte le “fiche” a tua disposizione su un numero secco. Il “dieci” di Roberto Baggio che tu chiamavi il “mio baggino” davanti a tutti e che non esitavi a proporre come modello ai suoi colleghi. Anche ai senatori come Tacconi e Schillaci e o a sedicenti fuoriclasse come Hassler e Julio Cesar ai quali la tua “baggiomania” faceva girare le scatole. E tu sai bene che tutti i giocatori, nessuno escluso, quando vogliono sanno essere dei grandi figli di buona donna. Dico questo ricordando la partita, contro il Barcellona a Torino, che forse avrebbe potuto “salvare” te a e la stagione bianconera. Non ho mai più visto, dopo quella volta, Baggio per novanta minuti lottare come un gladiatore, correre come un maratoneta, urlare come un generale in battaglia, prendersi botte e darle come un indemoniato per poi finire in ginocchio al centro del campo sfinito e con le lacrime a scendergli lungo il viso. Aveva provato, da solo, a ripagarti. Inutilmente. Tu eri una statua di sale davanti alla panchina.

    Ecco, caro Gigi, cosa mi scappa da dire ancora oggi  rispetto a un’avventura che a te, sicuramente, ha rovinato la vita e che per me è andata ad allungare la lista già sufficientemente ricca dei grandi e irrisolti misteri italiani riconducibili al calcio. Le lingue biforcute dissero e continuano a sostenere che l’unico autentico problema di quel disastro fosti tu. E, per confortare la loro tesi, invitano a rileggere il tuo dopo-Juventus professionale che certamente non è consolante. Io, amicizia a parte, non sono così convinto della validità di un simile teorema. Anzi, posso capire lo “choc” incaccellabile di un uomo che pensando di essere arrivato in paradiso si trova faccia a faccia con il demonio. O più umanamente penso a Joe Di Maggio che, dopo aver amato Marilyn, non riuscì più ad andare con una donna.

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