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  • In difesa dell'aziendalista Allegri

    In difesa dell'aziendalista Allegri

    • Fernando Pernambuco
    Aziendalista ovvero e comunque sempre con l’Azienda (A maiuscola), senza discutere. In un momento non facile, dall’amaro sapore per la Juve, rispuntano puntuali le critiche contro Massimiliano Allegri, accusato, tra una frecciata e l’altra di un eccessivo difensivismo e d’un esasperato appiattimento sulle volontà dei vertici aziendali. Sulla questione tecnica (l’esasperata timidezza tattica con conseguente snaturamento dei cavalli di razza Higuain e Dybala) molto ci sarebbe da dire. Qui ci limitiamo a osservare che se  la Juve osa, spesso perde. E’ una squadra che si situa nel solco dell’italianità breriana, sintonizzata non tanto sul “Primo non prenderle” piuttosto sull’attendere, infoltire area difensiva e centrocampo per colpire, come si diceva un tempo, in contropiede. Per altro questa tendenza, chiara negli ultimi tre anni è andata confondendosi o arricchendosi col pendolarismo di Mandzukic e i ritorni di Dybala.

    Il fortino convinto ha funzionato perfettamente contro il gioco avvolgente del Barcellona; il fortino meno convinto è crollato sotto la velocità verticale del Real. Alla timidezza tattica, secondo molti tifosi, si aggiunge una timidezza aziendalistica, che farebbe di Max un campione non di strategie, tattiche, preparazioni, bensì di opportunismo. Una volta sistemata la propria posizione personale e ottenendo sull’ onda di certificate affermazioni e vere o presunte sirene albioniche e transalpine (l’Arsenal, il Paris…) una riconferma che sfiora il raddoppio economico, Allegri-vedrete - dicono i suoi critici - avrà sempre una sola parola: “Yes”.  “Yes ai suoi capi, perché coi giocatori metterà in campo il ventre molle della prudenza, fatta, per i giovani talenti, di attese, di panchine lunghe, di pazienze infinite. A questa ultima critica verrebbe da rispondere con una domanda: qual è l’allenatore non aziendalista, quello che contesta sistematicamente la propria società, che chiede di essere il protagonista del mercato, che esige (si rimarca “esige”) e non suggerisce questo o quel giocatore? Spalletti va all’Inter e pone richieste economiche o aut-aut tecnici? Pioli arriva alla Fiorentina solo se gli garantiscono un sensibile rafforzamento della squadra? Gasperini si mette di traverso perché gli stanno smantellando un formidabile ordigno? Inzaghi sbatte la porta perché gli vendono Keita? E via dicendo.

    L’allenatore che resta o che arriva è aziendalista di natura e fa quasi sempre di necessità virtù. Certo, esistono i casi contrari di Paulo Sousa, a metà tra stimolo e destabilizzazione, tra messaggi coraggiosi e insinuazioni sibilline o le furie di Conte, giunte comunque alla fine di un ciclo di virtuosa rinascita, ma di carente  affermazione sul piano internazionale. Lo stesso Sarri la butta su generiche questioni di fatturato (come il Conte juventino, del resto, la metteva sul ristorante) e si ferma subito di fronte alle piccate risposte padronali di De Laurentiis; Zidane è cresciuto e maturato pazientemente all’ ombra di simbiosi col suo presidente; Mourinho la butta in malinconia; Montella incassa, gestisce al meglio la mediocrità, ma non si ribella. Non si ribellavano nemmeno gli allenatori prescelti, quindi condannati, da Zamparini.

    Non è aziendalismo, è parte del mestiere: una volta che si accetta ci si impegna a fare il meglio con quel che si ha, si propone, ma non si pretende. Assumersi le proprie responsabilità, non accampare scuse, non è aziendalismo. E’ semplicemente maturità e professionalità.
     

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