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  • Inter, Filip Stankovic a CM: 'I tiri di papà e i consigli di Julio Cesar, ecco perché faccio il portiere. Mi davano del raccomandato. Jonk ricorda Guardiola'

    Inter, Filip Stankovic a CM: 'I tiri di papà e i consigli di Julio Cesar, ecco perché faccio il portiere. Mi davano del raccomandato. Jonk ricorda Guardiola'

    • Pasquale Guarro
    «Per un portiere non c’è nascondiglio», disse saggiamente Brad Friedel, storico numero 1 del Blackburn Rovers. Consapevole destino che spetta ai più intrepidi. Filosofia condivisa da Filip Stankovic, uno che nonostante la giovane età riesce a distribuire e trasportare bene il peso di un cognome così importante nel mondo del calcio. Predisposizione al sacrificio e voglia di dimostrare, tempra Stankovic, insomma, anche se tra padre e figlio c’è una differenza che emerge ai nastri di partenza e a spiegarla è proprio Filip Stankovic ai microfoni di Calciomercato.com.

    “Papà ha costruito la sua mentalità a Belgrado, giocava anche per superare le difficoltà e sapeva che affermandosi avrebbe cambiato la sua vita e quella della sua famiglia. Io, grazie ai suoi sacrifici, arrivo da una condizione di agio, ma in questi anni ho costruito il desiderio di dimostrare a tutti che non gioco a calcio per il cognome che ho. Non dimenticherò mai i genitori degli altri ragazzini che durante la partita venivano dietro la mia porta per dare a me del raccomandato e a mio padre del figlio di…”

    Ti è mai venuta voglia di rispondergli qualcosa?
    “Ho sempre pensato che la migliore risposta fosse parare il parabile e l’imparabile sotto i loro occhi, la cosa mi gasava e mi dava sufficiente appagamento”. 

    Ci spieghi come ti è venuto in mente di fare il portiere?
    “Ricordo che tanto per cambiare giocavo a calcio in casa con mio fratello maggiore, lui faceva il portiere ma io ero molto piccolo e forse i miei tiri non lo impegnavano abbastanza. Allora mi chiese di andare in porta al suo posto e mi accorsi che mi divertivo molto. Anche perché poi non ero velocissimo, quando andavo ad allenarmi all’Accademia Inter vedevo che tutti andavano più forte di me e allora pensai che mettermi a fare il portiere potesse essere proprio il giusto compromesso. I primi tuffi li ho fatti sul marmo che abbiamo sotto il portico di casa”. 

    Non erano atterraggi morbidi, immagino…
    “No, ma un portiere deve anche  essere un po' incosciente”. 

    Come si riconosce un portiere forte?
    “Dipende da quello che cerchi, oggi il ruolo del portiere è cambiato molto, adesso bisogna essere difensori aggiunti che all’occasione partecipino al gioco della squadra con la costruzione dal basso. E poi molto fa la sicurezza che hai e che trasmetti alla squadra. A me piacciono i portieri che non hanno paura di uscire e prendersi responsabilità”. 

    Sei cresciuto con un idolo?
    “Sempre e solo Julio Cesar. Avevo 8 anni quando l’Inter vinceva con lui in porta e io mi incantavo con le sue parate. Quando l’ho visto mi sono detto, io voglio diventare così, impazzivo per lui e lui è sempre stato molto gentile con me. Mi aveva anche regalato i suoi guanti, li indossavo nonostante fossero fuori misura per le mani di un bambino, ma era tanta la gioia di averli… Ricordo che andavo ad allenarmi con quelli, forse non ne capivo il valore intrinseco. Adesso sono a casa al sicuro, ben conservati. Non li tocco più”.

    Ti ha mai dato qualche consiglio?
    “Certo, anche sui rigori. Lui mi diceva di intercettare il primo sguardo del tiratore perché è lì che avrebbe calciato quasi sicuramente. Adesso mi scrive su Instagram, si complimenta sempre per i risultati”.

    C’è qualche altro consiglio che custodisci gelosamente?
    “Adriano Bonaiuti mi ha dato gli strumenti per fare lo step dalle giovanili alla prima squadra. Ti fa lavorare con i giusti carichi di forza per bilanciare al meglio massa ed esplosività, cura l’alimentazione e ogni minimo dettaglio. Quando volevo giustificare qualche mio intervento non perfetto provavo a dirgli «mister, pensavo che calciasse in questo o quell’altro modo». Lui mi rispondeva perentorio «Tu non devi pensare, tu devi parare. Solo così emerge il talento». Questa è una cosa che mi sono portato dietro”. 

    Ti riconosci un pregio e un difetto?
    “Ho buona sicurezza e reattività. Di contro vorre migliorare nel non anticipare le parate perché a volte può andare bene, ma si incorre in qualche rischio di troppo”.

    Come ti stai trovando a Volendam, noti tante differenze?
    “Intato ci alleniamo due volte al giorno per tutta la settimana. Non c’è tempo per alcuna distrazione e dopo la doccia non esiste lasciare in giro qualcosa, raccatti tutto e metti in ordine. Da questo punto di vista c’è più rispetto, non che all’Inter non ce ne fosse, sia chiaro, ma qui è proprio diverso il modo di intendere la questione”. 

    Allenamenti due volte al giorno per tutta la settimana, si lavora duro…
    “Sì, ma questa cosa a me piace. Ho modo di concentrarmi su ciò che ho da fare su me stesso. Avevo l’obiettivo di mettere massa e crescere fisicamente e ci sto riuscendo”. 

    Cos’hai pensato quando è arrivata la chiamata del Volendam? Avresti preferito non allontanarti troppo da casa?
    “Ho pensato che avrei dovuto accettare immediatamente. Anche papà mi ha detto subito la stessa cosa: «Vai perché crescerai anche come uomo, avrai la tua casa e le tue responsabilità e poi in Olanda credono nei giovani». Aveva ragione, e poi se decidi di fare il calciatore devi essere disposto a qualsiasi sacrificio. Scegliere la comodità non paga, a portare risultati sono lavoro e continuità e un giovane non deve avere paura di stravolgere la propria vita se ha in testa l’obiettivo di crescere”. 

    Vivi da solo?
    “Sì, ad Amsterdam. Spesso mi raggiunge Federica, la mia fidanzata. Adesso è appena ripartita per Milano. Quando è qui con me mi sento completo, quando va via, invece, mi manca un pezzo. Stiamo insieme da due anni e ormai la adorano anche a casa mia, credo sia diventata la migliore amica di mia mamma. Si fida tanto di me e mi dà la serenità mentale che mi serve per affrontare il mio lavoro. Ha seguito tutto il mio percorso”. 

    E poi sei partito con un amico come Gaetano Oristanio.
    “Sta crescendo molto, il talento non gli è mai mancato. Con quei colpi può cambiarti la partita in due minuti e adesso sta mettendo più ritmo nelle gambe. Questa esperienza gli sta facendo bene”. 

    Che tipo di squadra siete?
    “Abbiamo qualità ed entusiasmo, siamo molto giovani e questa cosa a volte la paghiamo in esperienza e cattiveria agonistica. Ma siamo lì a giocarcela per guadagnare la promozione in Eredivisie. Sappiamo di avere a disposizione le nostre carte, anche se a gennaio abbiamo perso un pezzo importante: Denso Kasius, che è venuto a giocare in Italia, al Bologna. È un giocatore molto forte”.

    Il tuo allenatore è Wim Jonk, vecchia conoscenza nerazzurra. Che tecnico è?
    “Quando pensi a un allenatore pensi a una figura austera, a una persona rigida. Lui è esattamente il contrario, sa prendere tutti nel modo giusto. Alla terza partita ho preso un rosso, credevo mi dicesse di tutto e invece è venuto da me, mi ha guardato e mi ha detto «Testa alta, queste sono cose che possono succedere a tutti. Io credo in te e non ti devi preoccupare». Mi ha dato forza”. 

    Risultatista o giochista?
    “Lui vuole che la sua squadra si esprima nel miglior modo possibile. Non ci divide mai in diversi gruppi di lavoro, proprio per accrescere il feeling tra noi. Ci muoviamo tutti insieme, anche io che sono il portiere lavoro tantissimo in gruppo con loro. Rivedo concetti di Guardiola, è un calcio armonico”. 

    Dove ti vedi il prossimo anno?
    “Sono troppo impegnato a guadagnarmi questa promozione con il Volendam per pensare all’anno prossimo. E a dirla tutta io qui sto bene, spero di approdare in Eredivisie e giocare ancora qui anche l’anno prossimo, per potermi confrontare contro grandi realtà come Ajax, Psv, Feyenoord ed altre. Sarebbe un ulteriore passo per la mia crescita professionale”. 

    Ma hai un sogno?
    “Più di uno. Ovviamente spero un giorno di poter tornare all’Inter”. 

    Qualche volta tuo padre ti ha allenato con i suoi tiri?
    “Si, ero piccolo e provavo estrema soddisfazione nel pararglieli, solo dopo ho capito che in realtà per lui erano appoggi di piatto (ride, ndr). Però ricordo sempre che festa che era il giorno dopo una vittoria, mi vestiva di nerazzurro e mi portava ad Appiano. A fine allenamento prendeva due o tre sacche di palloni e io mi mettevo in porta. Lui provava il suo tiro di collo esterno ad uscire sul secondo palo, mi diceva «Io devo calciare lì, tu sei vuoi parti prima». Non che servisse a molto. 

    Lui adesso fa l’allenatore, hai mai pensato che un giorno potrebbe allenarti sul serio?
    “Ecco, questa è un’altra mia aspirazione, benché comprenda possa essere difficile. So che mi tratterebbe come tutti gli altri calciatori ma io sogno di essere sull’1-1 a pochi minuti dalla fine e parare per lui un rigore che gli faccia alzare al cielo un altro trofeo. Per me sarebbe una soddisfazione doppia vederlo gioire anche grazie a me”.

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