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  • L'assurdo conflitto tra i due Belenenses

    L'assurdo conflitto tra i due Belenenses

    • Pippo Russo
    Un'anima divisa in due. Sono mesi paradossali quelli vissuti dalla comunità del Belenenses, il terzo club di Lisbona, l'unico assieme al Boavista che sia stato capace di strappare la vittoria di un campionato a girone unico all'oligopolio della triade formata da Benfica, Porto e Sporting Portugal. Lo scorso sabato il club del quartiere di Belem ha vinto 2-0 il derby contro il Benfica, tirando giù le Aguias dalla testa della classifica. Un evento che capita di rado, e che in altri tempi sarebbe stato festeggiato con clamore. E invece quel risultato è stato un ulteriore motivo di divisione. Suggellato da una frase destinata a rimanere nella storia: “Non è stato il Belenenses a battere il Benfica”. Ma per comprendere il senso della storia è meglio entrare nelle sue pieghe. Anche perché dall'analisi emerge una serie di spunti che per la mentalità calcistica italiana risultano incomprensibili. Ma che quando vengono passati in rassegna, mostrano che il difetto sta dalla nostra parte. Un difetto d'arretratezza culturale.

    IL DUALISMO TRA CLUB E SAD – La prima cosa che proprio non ci riesce capire è la struttura del conflitto nato dentro e intorno al Belenenses. Quella che si è creata è una contrapposizione fra il club e la Sociedade Anónima Desportiva (SAD). Cioè, fra la base associativa e la società di capitali. Da una parte stanno i soci, che sono l'espressione della comunità di tifosi e incarnano un'idea di calcio come forma della partecipazione democratica. Dall'altra parte stanno gli investitori, che sovente sono soggetti esterni al club, guidati da una mentalità che inquadra il calcio come un fenomeno commerciale con possibilità di sfruttamento finanziario. La coesistenza fra soggetti di così diversa natura è tipica di un'evoluzione che ha interessato l'intera sfera del calcio iberico. Infatti sia in Spagna che in Portogallo i club calcistici nascono come esperienza associativa e mantengono questa identità nonostante i processi di modernizzazione. Ma arriva un momento in cui la formula associativa non regge più le necessità di crescita del club, specie se la squadra raggiunge le categorie superiori. Si raggiunge infatti su una dimensione economico-finanziaria non più compatibile con la gestione associativa. Servono capitali esterni. E dunque si pone il dilemma: ostinarsi a rimanere uguali a se stessi, andando incontro a morte quasi sicura, o aprire al capitale esterno e accettare una definitiva mutazione genetica? In realtà il dilemma è soltanto apparente, perché arriva sempre il momento in cui il club deve rassegnarsi a accogliere il capitale privato. E anche i più recalcitranti fra i tifosi devono farsene una ragione. A quel punto il passaggio da compiere è sempre lo stesso: un'assemblea generale dei soci che vota per la trasformazione dell'entità da associazione in SAD, con determinazione della quota di azioni da alienare agli investitori esterni. Ovviamente, la quota alienata è abbondantemente maggioritaria. Viene così a crearsi una condizione di dialettica istituzionale, con l'entità associativa da una parte e l'entità economico-finanziaria dall'altra. La squadra, cioè l'espressione sportiva, sta nel mezzo. Per i tifosi, che continuano a identificarsi nel club, essa è l'espressione dell'identità che si rinnova ogni volta che scende in campo. Per gli investitori, che tengono relativamente conto della storia e dell'identità, la squadra è un asset che deve produrre utili.

    Questa dialettica può anche generare dinamiche virtuose, come succede quando una SAD ben organizzata e strutturata produce buoni risultati sia sul piano sportivo che su quello economico-finanziario, e un club capace di dinamismo associativo può sorvegliare con efficacia il lavoro degli investitori e farvi da pungolo. Ma capita pure che le due parti entrino in rotta di collisione. Succede perché le due parti hanno mentalità completamente diverse ma più spesso perché le SAD vengono penetrate da interessi opachi. Al Belenenses il conflitto è scoppiato in modo irrimediabile. A settembre 2013 il 90% della SAD appena costituita viene ceduto a una società denominata Codecity Players Management. A presiederla è Rui Pedro Soares, un faccendiere vicino all'ex primo ministro socialista José Socrates e toccato da alcuni fra i più grandi scandali della recente vita pubblica portoghese. I rapporti fra le due parti sono tesi fin dall'inizio e continuano a deteriorarsi. La dinamica di distruzione tocca l'apice la scorsa estate, quando il Belenenses-club guidato dal presidente Patrick Morais de Carvalho, ripudia il Belenenses-SAD guidato da Rui Pedro Soares. Il club iscrive un altro Belenenses nelle categorie provinciali (Distrital). E nega l'uso dei simboli e dell'Estadio do Restelo al Belenenses iscritto in Primera Liga. Tanto che la squadra ormai identificata con la SAD è costretta a giocare a Oeiras, nell'Estádio Nacional do Jamor, proprietà della federcalcio portoghese. In quell'impianto, lo scorso sabato, è stato battuto il Benfica. E a commento di quel risultato il presidente del Belenenses-club, Patrick Morais de Carvalho, ha pronunciato la frase citata sopra: “Non è stato il Belenenses a battere il Benfica”. Per rimarcare una volta di più che “quello lì” non è il vero Belenenses.

    PERCHE' NON CAPIAMO QUESTA DIALETTICA – Sulla distanza culturale fra calcio italiano e calcio iberico, in materia di dualismi fra dimensione democratica e dimensione economico-finanziaria, ci esprimemmo tempo fa in un articolo scritto per una testata online portoghese. Noi italiani non capiamo questa dialettica perché non abbiamo mai distinto, in una società di calcio, il club dalla proprietà. Soprattutto, non abbiamo mai vissuto il club calcistico come entità democratica e associativa. Per noi è esistita sempre e soltanto “la squadra”, cioè la parte agonistica dell'entità sportiva. Cosa succedesse dietro e intorno alla squadra non era affar nostro. E quanto al rapporto con la proprietà, siamo figli di un modello mecenatistico del quale stentiamo a liberarci. Il presidente era (e quasi sempre è tuttora) anche il proprietario, e questo soggetto era un impresario che pompava denaro nello spettacolo. Se ci faceva divertire, lo idolatravamo. Se ci deludeva, lo contestavamo. Ma mai pensavamo che il club fosse anche (soprattutto) nostro in quanto tifosi. E che dovessimo partecipare alla vita del club non per diritto, ma per dovere. Perché il club calcistico è un bene collettivo della sua comunità, e ciascun componente della comunità deve farsene carico. In Italia questa consapevolezza comincia a diffondersi adesso, con circa un secolo di ritardo. Il processo è lento e difficoltoso, anche perché la maggioranza dei tifosi continua a augurarsi l'arrivo del magnate e respinge i contestatori delle proprietà esistenti usando la frase solita: “E allora comprala te!”. Rispetto a questo stato delle cose, il caso del Belenenses mostra tutto un altro scenario. Giusta o sbagliata che sia la traiettoria seguita a Belem, essa dimostra l'esistenza di un'idea del calcio come partecipazione e responsabilità, nella quale i tifosi mantengono una funzione di responsabilità. Molto meglio i loro conflitti della nostra acquiescenza.

    @pippoevai

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