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L'Heysel, il calcio come guerra e il dilemma della Juve: doveva davvero esserci un vincitore?

L'Heysel, il calcio come guerra e il dilemma della Juve: doveva davvero esserci un vincitore?

  • Fernando Pernambuco
    Fernando Pernambuco
Juventus, storia di una passione italiana” (UTET) in realtà è molto di più di più di quanto contenuto nel titolo. Gli autori, gli eminenti storici Aldo Agosti e Giovanni De Luna, sono juventini convinti e dichiarati, ma scelgono la loro squadra come punto di vista, o di fuga, per offrire una prospettiva sulle vicende d’un’intera nazione e d’una società civile. La Juventus, il calcio diventano la torretta da cui guardare il paesaggio in movimento dal 1897, in cui un gruppo di allievi del famoso Liceo D’Azeglio fondò  il primo nucleo di quella squadra dal nome esotico, che, invece, era latino. E da lì si dipana il filo  attraverso la prima guerra mondiale, il fascismo, il secondo conflitto, fino all’immigrazione (snodo fondamentale del tifo juventino), allo sviluppo industriale. Non mancano certo i nomi, i giocatori, gli allenatori (Combi, Parola, Sivori, Charles, Platini...), l’avvocato Agnelli. Non mancano gli 8 scudetti consecutivi. E la Champions agognata quanto dannata.

Il dramma dell’Heysel riemerge prepotente, come una ferita non ancora rimarginata. Non solo per il dolore, il lutto, ma per un dilemma morale, che per altro si pose già il giorno dopo quella vittoria tragicamente macchiata di sangue. Non furono pochi - si riportano lettere e prese di posizione - i tifosi e gli opinionisti decisi a chiedere alla società di rinunciare al trofeo, di restituirlo come monito altissimo e severo contro un gioco tramutato in barbarie. Il critico apocalittico Pol Vandromme, nel saggio “Le gradins du Heysel” scrisse: “ La Bestia insaziabile, nel labirinto dello stadio, aveva mangiato carne e bevuto sangue. La violenza aveva lanciato la sbobba alla canaglia infuriata. Era l’attimo sacramentale in cui la carne imputridisce, il sangue accaglia, il sole nero copre il cielo di tenebre e colma la valle di lacrime”. Guy Debord, anni prima, ne “La Società dello Spettacolo” aveva genialmente preconizzato che tutto sarebbe diventato immagine e che “la bestia dello spettacolo, alla fine, si nutre di carne umana”. Il massacro ripropose sofisticate analisi sul sacrificio, la furia, l’appartenenza tribale, che il calcio risuscita (già Desmond Morris aveva aperto la strada). Il sociologo Alessandro Dal Lago scriverà pochi anni dopo, in “Descrizione d’una battaglia”: “Il calcio dà voce (trasformandole, ritualizzandole, e cioè rendendone l’espressione visibile, costante, prevedibile e formale) ad aspettative, esigenze e tensioni paradossalmente morali, che nella vita sociale ordinaria restano allo stato latente, o sono confinate nell’ombra della vita privata e anonima delle persone”. Ci volevano i 39 morti per mostrare la forza dirompente del calcio capace di coniugare la gioia alla consolazione, la passione alla morte?

L’Heysel si sarebbe rivelato una specie di monumento ai lati oscuri dell’uomo, con donne e bambini maciullati non in una guerra, bensì in un evento sportivo. E comunque fu distrutto, cancellato dai belgi, e solo una petizione popolare impedì di abbattere anche il monumento in ricordo dei morti. S’è detto, giustamente, che proprio gli organizzatori e le autorità belghe, con la fatiscenza degli impianti e l’assoluta impreparazione, furono fra corresponsabili dell’eccidio e tentarono di tutto per coprire le proprie responsabilità. Ma restano aperte le domande: si doveva giocare? Ci doveva essere un vincitore?

La guerra dice che un vincitore c’è sempre, ma il calcio era (è) una guerra? Rifiutare la Coppa non avrebbe significato rifiutare la guerra e vincere qualcosa di più grande di un grande trofeo? Ovvero l’assoluta condanna di uno sport ormai nell’abisso della barbarie? Forse non tutti sanno che Boniperti si battè fino alla fine per non far giocare la partita, per sospendere e andarsene. Ma le autorità belghe furono irremovibili, affermando che altri possibili incidenti sarebbero stati responsabilità di chi si rifiutava di giocare. Allora tutto ripiombò nella logica militare. Il giornalista Jean-Philippe Leclaire, in “Le Heysel. Una tragédie européenne” riporta quello che gli disse Morini, allora direttore sportivo della Juventus: “Prima della partita, una volta deciso di giocare, Trapattoni aveva chiesto ai suoi giocatori di vendicare i morti sul campo. Vincere era come andare a prendere la bandiera del nemico nel suo campo”.

Sarebbe stato possibile rinunciare alla vittoria, brandendo bandiere insanguinate? L’avvocato Agnelli dirà che “Accettare la Coppa era doveroso per onorare i caduti”. Bobby Charlton dirà: “Mi vergogno di essere britannico”. E molti juventini pensarono che i loro compagni di fede calcistica fossero “i loro morti”, così come gli antijuventini intonarono danze derisorie (la più nota è: “Ti ricordi lo Stadio Heysel?”).

In un modo o nell’altro (elaborazione del lutto, derisione nichilistica, ragioni della politica) si voleva dimenticare il fondo oscuro dell’uomo che promanava dai corpi maciullati in uno stadio in rovina. E poi c’era lo spettacolo che deve sempre andare avanti, oltre, (grazie) alla morte. Come disse Platini: “Quando muore l’acrobata entrano i clown”.

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