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  • L'Italia fuori dall'Europa farebbe la fine di un bel paese del Sudamerica

    L'Italia fuori dall'Europa farebbe la fine di un bel paese del Sudamerica

    • Fernando Pernambuco
      Fernando Pernambuco
    Giunta alla cosiddetta fase 2, la crisi pandemica è stata vissuta in Europa in modi diversi. C’è chi l’ha dovuta affrontare prima, come noi, e ha scelto la via dell’emergenza: chiusura, isolamento, allarme sanitario, blocco di gran parte dell’attività economica. C’è chi è stato alla finestra (Spagna, Francia, Portogallo, Grecia) e poi, alla prima travolgente ondata, ha ripiegato sulla stessa strategia. Lo sprezzante Johnson s’è rimangiato presto il “tutto aperto” e l’immunità di gregge per giungere a più miti consigli emergenziali, sostituendo in gran fretta l’epidemiologo di “Stato”. La Germania ha scelto una via di mezzo, tenendo aperta una buona parte dell’attività produttiva. Gli svedesi hanno mantenuto il libera tutti, ma oggi si dicono meravigliati del gran numero dei morti assai maggiore del previsto. Negli Stati Uniti, Trump non ci credeva tanto al pericolo di questo “raffreddore” che poi è diventato “la più terribile malattia” degli ultimi 100 anni. Questa gestione ondivaga gli avrebbe procurato un brusco calo dei sondaggi perché il Covid-19 non è un nemico politicamente riconoscibile, perciò il nemico esterno ( sempre necessario per il consenso politico interno) con le elezioni alle porte potrebbe tornare ad essere la Cina da attaccare con nuovi dazi. Insomma, per dirla alla Von Clausevitz, la guerra (commerciale) come continuazione della politica. 

    Anche in Italia abbiamo bisogno di giustificare le nostre difficoltà trovandoci un nemico esterno. Questo nemico è l’Europa. Di chi è la colpa della crisi economica che ci attanaglia? La colpa del nostro debito pubblico monstre? Non avremmo affrontato meglio l’emergenza da soli? Un nemico, lo diceva già Machiavelli, serve, in mancanza di altro, a farci sentire uniti. L’Europa, abbastanza vero, è un’incompiuta. E non sarebbe meglio, dunque, stare fuori dall’Europa? Tornare alla vecchia, cara lira? E’ quanto sostengono i nazionalisti, dimenticando, però, alcune cose. 
    Il debito pubblico monstre non l’ha creato l’Europa, non l’ha prodotto l’euro. Fu messo in atto con la lira, molti anni fa, quando le generazioni di allora si comprarono il presente per lasciare in braghe di tela o quasi il futuro dei propri figli. Per pompare la pubblica amministrazione di assunzioni inutili, per creare organismi farraginosi, per sfamare clienti, per dare crediti a iosa a imprese industriali incerte, impossibili o fasulle, foraggiare un terziario con bonus e contratti interni gonfiati, pensioni di anzianità allegre, allegrissime che permettevano di smettere di lavorare attorno ai 40 anni, con nemmeno 20 anni di contributi. Si stava meglio? E certo, ma chi lo pagava questo bengodi? Le tasse no, l’evasione fiscale era già lo sport nazionale insieme al calcio. E allora chi lo pagava? Il debito pubblico che cominciava a lievitare. L’ inflazione faceva il resto e capitava anche di vedersi sottrarre i soldi dai propri conti correnti, per legge, con un prelievo forzoso nel cuore della notte, per non mettere a rischio di fallimento l’Italia. Già: anche gli Stati falliscono. 

    A forza di esagerare nelle assunzioni non necessarie, nella creazione di organismi inutili, nel raddoppio di mansioni, nel credito facile, a forza d’inflazione a due cifre, quelle generazioni (anni’70) erano felicissime. I loro padri, usciti dalla immane potatura della guerra, avevano ricreato imprese e lavoro su una domanda interna rinnovata, su iniezioni di denaro piovute dal piano Marshall, su invenzioni, trasformazioni e costi del lavoro altamente competitivi. La produttività era il vento che spingeva l’Italia, sosteneva i consumi interni  e spingeva esportazioni altamente concorrenziali perché i prodotti italiani avevano un buon rapporto prezzo/qualità. L’Italia era la Corea (del Sud) d’Europa, poi, come spesso accade non fummo capaci di cambiare marcia, di produrre innovazione, ma i consumi andavano alimentati, indietro non si poteva tornare: inflazione e debito pubblico nutrivano l’illusione che nulla fosse cambiato, anzi. In fondo riuscivamo a turlupinare anche noi stessi in quanto risparmiatori e detentori degli allora Buoni del Tesoro: lo Stato ci restituiva una cifra e ci dava cedole che valevano meno di quando le avevamo comprate e sottoscritte perché i soldi inflazionati  avevano sempre minor potere di acquisto.
    Invece di riformare lo Stato, i gangli amministrativi, di tagliare funzioni parassitarie, invece d’inventarci migliori prodotti, praticare saperi innovativi (l’Olivetti chiuse) ci finanziavamo col debito che non finanziava un bel niente e manteneva posizioni di rendita: lavoro garantito, evasione fiscale garantita, che avremmo pagato in futuro. Dicono: Keynes faceva così. Sì, ma per rimettere pubblica amministrazione ed economia in carreggiata, per rendere il debito pubblico produttivo non parassitario. Una volta superata la crisi economica, Keynes teorizzava equilibrio, parità di bilanci e debito sotto controllo. 

    Ora qualcuno dice che la colpa è dell’Europa, che vorrebbe tornare all’Italietta generosa e spendacciona. Faremmo come l’Argentina: per tenere in piedi il debito pubblico offriremmo titoli con interessi a due cifre, esporteremmo di più, ma pagheremmo enormemente di più le materie prime a cominciare dall’energia. L’inflazione sprigionerebbe i bagliori di una ricchezza illusoria, arrivando a far valere la lira come carta straccia. Ultimo atto: saremmo insolventi perché non riusciremmo a pagare il debito pubblico. Come un bel Paese del Sudamerica, finalmente senza Banca Centrale Europea, senza Euro, senza limiti e parametri, saremmo liberi: “Todos Caballeros”. 

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