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La Samp piange Filippo Mantovani, l'uomo che scoprì Veron e Seedorf

La Samp piange Filippo Mantovani, l'uomo che scoprì Veron e Seedorf

  • Renzo Parodi
Filippo era il più schivo dei quattro figli di Paolo Mantovani (il presidente dello scudetto della Sampdoria), scomparso domenica scorsa a soli 54 anni. Un timido, capace di slanci improvvisi se il cuore gli diceva che si poteva fidare. Molto genovese, dopotutto, nella ritrosia innata ad apparire. Decisamente diverso dai fratelli; dalla comunicativa Francesca, la primogenita e “cocca” del papà; dalla più piccola del nido, Ludovica, estroversa e cordiale con tutti; era diverso Filippo persino dal fratello Enrico, riservato ma mai scontroso. Un ragazzo semplice, probabilmente fragile. “Il primo ricordo che mi viene in mente risale alla nostra infanzia. In villa a Sant’Ilario – racconta Enrico - Un giorno Filippo mi tirò in faccia una manciata di ghiaia e mi ruppe un dente. Ma non è questo ovviamente che mi rimane di lui. Filippo era una persona che diceva sempre quello che pensava. Anche quando un po’ di diplomazia non avrebbe guastato. Era fatto così: semplice e diretto. Genuino e spontaneo”.

Dopo che la famiglia aveva ceduto la Sampdoria ai Garrone, Filippo (foto profilo twitter della Sampdoria) si era allontanato dall’Italia, aveva raggiunto la sorella Ludovica a Barcellona, dove la più giovane dei Mantovani aveva inaugurato una start up nel mondo della vela. Aveva continuato ad occuparsi di calcio come agente, in contatto con i mercati dell’Argentina e del Brasile. Aveva scoperto il gioco del paddle, un simil tennis che ora ha preso piede anche in Italia. Filippo lo aveva previsto. “Me ne aveva parlato in termini entusiasti, consigliandomi di investirci del denaro”, ricorda Enrico. “Avrei dovuto dargli retta”. Era rientrato in Italia circa un anno e mezzo fa e aveva aperto un bar ristorante nel centro di Sestri Levante. Si preparava a riaprirlo dopo la serrata invernale, in attesa ovviamente della fine del lockdown. “Aveva lasciato in Spagna la compagna, Alona e la figlia di lei, Palina, alla quale era legatissimo”. Proprio la compagna, nella giornata di domenica, aveva tentato di mettersi in contatto telefonico con lui. Invano. “Abbiano chiamato i vigili del fuoco che sono penetrati in casa attraverso una finestra. Filippo era già morto, non siamo arrivati in tempo”. Un infarto, probabilmente, gli è stato fatale. A dicembre Filippo aveva accusato un malore e i medici dell’ospedale di Lavagna gli avevano applicato un pace maker al cuore. Non è bastato salvargli la vita. “Dopo la cremazione Filippo riposerà accanto a papà, nel cimitero di Bogliasco”, chiude Enrico, commosso.

Appassionatissimo di calcio e della sua Sampdoria, Filippo aveva affiancato il fratello Enrico quando costui era subentrato alla guida della Sampdoria al padre, scomparso nell’ottobre 1993, a 63 anni di età. Papà Paolo aveva chiesto ai quattro figli di giurare che dopo la sua morte si sarebbero disfatti della società ma Enrico, unico fra i quattro figli del grande presidente, si era rifiutato di farlo. Difatti ne raccolse l’eredità. Filippo era diventato suo consulente per le questioni sportive. Aveva fiuto, coglieva il talento ancora in boccio e ci puntava, sicuro di non sbagliare. Accadde con due futuri campioni, transitati come meteore nella Sampdoria, per approdare a lidi più ambiziosi: Juan Sebastian Veron e Clarence Seedorf. Semisconosciuti in Italia, sbarcarono a Genova nell’estate del 1996 l’argentino. Proveniva dal Boca Juniors ed era stato dirottato alla Sampdoria dal Parma, che su di lui vantava un’opzione, nell’ambito dell’affare che aveva condotto Enrico Chiesa alla corte di Tanzi. Per amore di verità va ricordato che anche il ds blucerchiato Paolo Borea aveva messo gli occhi su lui e ne aveva caldeggiato l’acquisto: “E un Cerezo giovane”, aveva detto Borea al giovane presidente. Borea non amava viaggiare in aereo e così tocco a Filippo e al vicepresidente Salvarezza volare a Buenos Aires e chiudere l’affare che nel frattempo purtroppo si era rivelato più costoso: circa 6 miliardi di vecchie lire al club Xeneixe e un ingaggio di quasi un miliardo l’anno alla Brujita (la Streghetta), il suo nome di battaglia. Era invece tutto merito di Filippo l’ingaggio (avvenuto l’anno prima di Veron, il ’95) del ventenne centrocampista dell’Ajax Clarence Seedorf: un giovane atleta tracagnotto e solido che possedeva piedi docili e grande senso del gioco. Un regista, insomma che difatti, svestite le maglie di Ajax e Sampdoria, avrebbe fatto una splendida carriera giocando con il Real Madrid, Inter, Milan e chiudendo nei brasiliani del Botafogo. Si infuriava, Filippo, sentendo qualche giornalista e/o tifoso dal palato troppo fino sentenziare: “Seedorf ha il culo basso”. Balle. Clarence aveva dimostrato già a Genova di essere un gran calciatore. Difatti venne venduto a peso d’oro all’Inter dopo appena una stagione in blucerchiato.

Filippo come Francesca e Ludovica ebbe diverse occasioni di frequentare papà Paolo. Enrico era andato a studiare in Svizzera e poi in America e si vedeva un paio di volte l’anno allo stadio, in occasione di un match della Sampdoria. Vicino o lontani, tutti e quattro i fratelli Mantovani erano sottoposti alla rigidissima disciplina imposta dal padre. Un romano atipico, temperamento calvinista (in gioventù, appena sbarcato a Genoa negli uffici dei petrolieri Cameli, lavorava anche 18 ore al giorno), inflessibile nel rispettare la parola data (“con me basta una stretta di mano”), nemico di sotterfugi e gherminelle.

“Con noi papà era una tomba, sulle questioni della Sampdoria non apriva bocca. – rivelò Francesca - Quando si sparse la voce che Vialli sarebbe passato alla Juventus, sollecitata da Mancini andai da lui per sapere se c’era del vero. Papà mi respinse. Appresi del passaggio di Gianluca alla Juve come tutti: dal comunicato della società”. Le lettere che la giovanissima primogenita scriveva ai giornali sportivi, che le pubblicavano puntualmente, non erano tutta farina del suo sacco: “Io ci mettevo le idee ma le scriveva papà, che aveva la penna facilissima”. In compenso papà Paolo non permise mai a Francesca di possedere un suo apparecchio televisivo nella propria camera da letto.

Da ragazzo, a Roma Paolo Mantovani era tifoso della Lazio. Il trasferimento a Genova nel ’55 (aveva 25 anni) lo staccò dal calcio. Nel ’64 aderì alla sottoscrizione per trattenere a Genova Gigi Meroni. Non era affatto tifoso del Genoa, pensava che Meroni fosse un patrimonio del calcio cittadino”. Quei due milioni, come tutto il denaro versato dai tifosi genoani, finì nelle case del Genoa e però Meroni venne ugualmente ceduto al Torino. Mantovani decise che mai avrebbe tifato per i colori rossoblù. Il suo percorso di avvicinamento alla Sampdoria culminò in occasione di un Sampdoria-Lazio dell’aprile 1971. Vittoria laziale per 3-2. Decise allora che la Sampdoria sarebbe stata la sua squadra del cuore. Gli fece tenerezza così debole e disarmata e ne apprezzava da tempo la lezione di stile e di vita impartita da un altro romano come lui, il grande Fulvio Bernardini che all’epoca guidava con perizia e disincanto la navicella blucerchiata. Una salvezza dopo l’altra, e di più non si poteva sognare.

Gli piaceva quella squadra modesta che cercava comunque di giocare al calcio, di divertire il pubblico, in ossequio ai dettami di Bernardini che si rifiutava di far marcare Rivera a uomo, fustigando i giornalisti che glielo suggerivano “E che, vedo giocare Gianni due volte l’anno e lo faccio riempire di calci?”. Stile, sobrietà, fai play e mai una sola parola in pubblico pronunciata contro un arbitro. Questo era lo stile Sampdoria con Paolo Mantovani. Dopo una breve apparizione nl ’73 come addetto stampa (una figura che da presidente abolì) Paolo Mantovani rilevò la Sampdoria che giocava in B, all’inizio di luglio del 1979. E in poche stagioni la consacrò fra le grandi d’Europa. Contro tutto contro tutti. Anche contro una città allora ancora prevalentemente rossoblù nel suo establishment imprenditoriale e politico, che fece di tutto per mettergli i bastoni fra le ruote. Fra l’altro demolendo il vecchio stadio Ferraris, ridotto a ventimila posti, obbligando la Sampdoria di Boskov a giocare a Cremona le partite di coppa Italia e di Coppa delle Coppe. Eppure nell’89 la Sampdoria vinse la Coppa Italia sbaragliando il Napoli di Maradona e arrivò alla finale europea di Berna perdendo contro il Barcellona. Mantovani ne andava orgoglioso.

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