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  • Laziomania: genetica di un tifoso, mio padre è della Lazio, mio nonno anche

    Laziomania: genetica di un tifoso, mio padre è della Lazio, mio nonno anche

    Ci hanno visto con le mani in faccia, all'ultimo minuto dell'ultima giornata dell'ultimo campionato. L'Inter a casa nostra si stava portando a casa il posto in Champions, dopo un anno in vantaggio, un anno a sfoggiare bellezza inutile e non richiesta. 

    Ci hanno visto che giravamo per Roma spogliata dal caldo,  ripensando a tutto un anno allo stadio, ripensando a tutta una vita allo stadio, ripensando alle altre vite prima di noi allo stadio. A tutto quello che ci eravamo persi. 

    Mio padre tifa Lazio, anche mio nonno. Mio padre guarda la Lazio ogni domenica da anni, mio nonno si ricorda di quando il calcio non era così, e i laziali e i romanisti andavano allo stadio insieme, perché il calcio no, non era così. Tutto quello che ci siamo persi. 

    Ci hanno visto con l'estate in faccia, a spiare le litigate telefoniche di Inzaghi e Lotito. Ci hanno visto riprometterci, come ogni anno, che ogni anno si ricomincia da zero. Ci hanno visti capire che la bellezza non è una cosa che puoi creare sempre alla stessa maniera, anche stringendosi in squadra gli stessi giocatori, tenendosi vicino le stesse persone. 

    Abbiamo guardato dietro di noi tutta la genetica di cosa significa essere laziali,  e colpire un po' a casaccio frammenti di storia passata, di rabbia, di furti, di regali improvvisi e rari, cristallizzati in ricordi difficili da togliersi di dosso.  

    Ci hanno visto ridere con le nostre ragazze di come ogni domenica sempre lo stesso rito, ogni domenica sempre le stesse facce, le stesse pacche, ci hanno visto ridere con le nostre ragazze diventate mogli di quanto fosse buffo nostro figlio con la sciarpa, e riderne con le stesse facce, con le stesse pacche, solo un po' invecchiate. Con tutto quello che non vogliamo perderci. 

    Ci hanno visto e ci hanno detto che lo stadio non era più per noi, troppo vecchi, troppo stanchi, troppo disamorati. Ci hanno detto che quel luogo mistico, quel blocco di cemento rifatto dagli anni '90, puzzolente di urina e risentimento, non aveva più niente di magico, che la magia non può esistere negli anni 2000, che ciascuno deve fare i conti con le proprie rughe e farsi un abbonamento alle pay-tv. Tutto questo potevamo perderci. 

    Ci hanno visto con le mani al cielo dopo il derby vinto e con le mani in faccia al pareggio della Fiorentina, con le mani a schermarci dal sole di Roma (prendi l'ombrello, è marzo) per osservare quanto si è allontanato questo sciocco, nostro, privato sogno Champions. Ci hanno visto chiederci:  è giusto sognare anche il quarto posto oggi, con tutte queste squadre, queste difficoltà, questi punti di distacco. Tutto questo abbiamo perso. 

    Ci hanno visto guardarci dietro, a tutta la genetica di cosa significa essere tifosi di una squadra di calcio di nome Lazio (di una squadra di calcio). Mio padre tifa Lazio, mio nonno anche. Io sono stato pensato laziale prima di nascere, tifoso prima di venire al mondo. Tutto questo non può essere perso. 

    Come è possibile, ora, smettere di sognare che la squadra per cui tifo giochi alla morte tutte le partite da qui alla fine, come è possibile smettere di prendere quel tram, salire in auto, mettere la sciarpa. Ci hanno visto con la sciarpa in mano, colpire un po' a casaccio la giacca, in cerca del mio biglietto, per il mio posto, a casa mia, allo stadio per la Lazio. 

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