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  • Auguri Roberto: talento senza patria

    Auguri Roberto: talento senza patria

    • Fernando Pernambuco
    Caro Roberto (il nomignolo con la y finale non ci piace),
    tanti auguri. Te li hanno fatti in molti, ricordando la tua grandezza, il tuo talento, la tua eleganza calcistica. Sei stato un giocatore simbolo. Non di una squadra, come Del Piero, Totti, Antognoni…, ma del calcio. O meglio del gioco. Ce ne sono stati tanti, fra i nostri, di forti, di determinanti, d’insostituibili, capaci di miracoli (Riva col Cagliari, Vialli e Mancini con la Samp, Puliciclone col Toro) ma vedere giocare te era puro godimento. Superava l’ansia del risultato, la necessità della ragion di squadra, il calcolo. I tuoi movimenti erano una specie di musica disegnata che si spandeva sul campo: un semplice pentagramma su cui t’incidevi come una nota. Le note s’innalzano, volano secondo il proprio ritmo. E tu di ritmo ne hai avuto in copiosa quantità. Il piede sinistro serviva soprattutto per impostare il dribbling, poi cominciava il controtempo (pallone di qua, avversario di là). Qualcosa a metà tra la samba e lo slalom, ma con un che di classico, capace di allontanarti dalle movenze carneval-cariochesche. Un tocco di Mozart, il musicista più leggiadro e concreto di sempre, ecco cosa era il tuo calcio. Andante e Allegretto, i tuoi tempi.

    Così ci si nasce. Ma un grande talento, può anche essere un peso. In fondo un tratto della tua storia è stato anche questo: la paura di perderlo il talento, al servizio d’un’idea. Se sapevi scattare e bere mezza squadra avversaria oppure passare al volo o arrivare sempre una frazione di secondo prima, perché starci troppo a pensar su? Giocare a destra, fare l’ala, i cross? E perché mai? Già, un grande violinista troppo spesso costretto ai diktat del direttore d’orchestra. Con gli allenatori, non tutti ma molti, hai quasi sempre avuto un rapporto conflittuale. Non sopportavi che ti dicessero di tornare indietro a dare una mano, di marcare il portatore di palla. Avevi un certo modo di ribellarti, che non era quello del conflitto aperto: ti rinchiudevi a riccio e te ne stavi per conto tuo. Alcuni dicevano che rompevi la compattezza dello spogliatoio. Altri che non avevi carattere: il famoso “coniglio bagnato” dell’impietoso Avvocato, il quale prima t’aveva chiamato “Raffaello”.  Lippi, Eriksson, Trapattoni, Sacchi, Ulivieri, spesso li “mandasti in bestia” e qualcosa di più. Solo un anno fa, Sacchi, paragonandoti a Tevez, disse che diversamente da te l’argentino era “un campione senza controindicazioni”. Ergo, tu, invece un campione “con controindicazioni”.

    Sei stato giudicato uno dei migliori calciatori di sempre. Il quarto del mondo (dopo Maradona, Pelé, Eusebio) in un sondaggio web della Fifa; hai vinto un Pallone d’oro - quando forse quel premio contava qualcosa -  campionati e coppe, ma ti tenevi dentro qualcosa. Che cosa? Forse la “controvoglia” come quando lasciasti la Fiorentina per la Juve e poi iniziasti un percorso che sembrava un vagabondaggio senza fine, come se andassi ovunque “senza appartenenza”. Sembravi un senza patria, un senza squadra, eppure col pallone tra i piedi il tempo non passava. Forse sei stato davvero felice solo nel Vicenza, all’ inizio, e nel Brescia, alla fine. Forse ti hanno segnato i 220 punti con cui il Professor Bousquet ti ricucì il ginocchio destro. Forse il calcio era un gioco troppo terrestre, per uno che ben presto si sintonizzò sulle sfere del Buddha.

    Ti avevano dato un bel ruolo nella Figc, Presidente del settore tecnico, ma ben presto si rivelò un guscio vuoto e te ne sei andato. Silenziosamente, seccamente. Ti sei alzato dalla poltrona e sei uscito dal salotto.  Non sei restato nel circo del pallone, a presenziare, parlare, rappresentare. Rara avis in un cielo con molto, molto frastuono.

     

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