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  • Massimo Palanca:| Ranieri, Catanzaro e...

    Massimo Palanca:| Ranieri, Catanzaro e...

    Massimo Palanca è nato a Loreto il 21 agosto 1953. Attaccante minuto quanto esplosivo, dotato di un sinistro mortifero quanto delicato, ha giocato negli Anni Settanta e Ottanta con le maglie di Camerino, Frosinone, Catanzaro, Napoli, Como, ancora Napoli, Foligno e ancora Catanzaro. Con i calabresi ha raggiunto l'apice della carriera, a cavallo degli Anni Ottanta, con una presenza in Nazionale. Tra i suoi numeri, 147 presenze e 39 reti in A, 217 gare e 63 gol in B.

    «Massimé, pari 'na molla», gli cantavano i tifosi, incantati. Sono passati trent'anni, e i baffi sono ancora quelli, inconfondibili. E anche il sinistro, numero 37, con cui regala ancora qualche delizia quando gioca a calcetto, almeno una volta a settimana. Massimo Palanca, sposato, un figlio che si chiama Marco, neo-nonno di una bimba dal nome di Beatrice, una lunga teoria di nipoti, viaggia in giro per la sua terra, le Marche, a scoprire talenti. Abita a Camerino, fa l'osservatore federale, si occupa della rappresentativa regionale dei Giovanissimi: «Un bel progetto, un compito che mi piace, negli ultimi anni dal nostro territorio sono emersi ragazzi come Marilungo e Paponi, ad esempio. Anche se il lavoro a tappeto che si faceva qualche anno fa, con la direzione di Ottavio Bianchi a livello nazionale, è stato fermato. In Italia quando le cose funzionano, chissà perché, poi si bloccano. Ora si parla di vivai, di Primavera, ma bisogna cominciare molto prima, dico io».


    La boutique di famiglia, a Camerino, la gestisce la moglie, lui gira per la regione, inconfondibile con quell'incedere che fece innamorare Catanzaro e non solo. E' uscita da poco la sua biografia: doverosa, perché una storia così meritava di essere tramandata, anche se Palanca era un campione schivo, che faceva parlare soprattutto il piede sinistro, oggetto di studio e - già allora - di sponsorizzazione. Nostalgia di quel calcio? «Sì, nostalgia. E mi dispiace anche aver chiuso la carriera presto. Avevo sì 37 anni, nel 1990, ma stavo ancora benone. Ma quell'anno a Catanzaro la situazione era tribolata, s'inventarono i ritiri punitivi, e io non ce la facevo più. Ma il fisico c'era, eccome». Una molla, appunto, come cantava il Ceravolo, lo stadio di Catanzaro, e non solo la domenica. «Il giovedì - gli piace raccontare ora - la curva intera veniva agli allenamenti, perché io calciavo le punizioni. Era un bello spettacolo», per lui avere lì i tifosi, per loro ammirarlo. Perché con quel sinistro si poteva permettere di tutto, le sue non erano punizioni: magie, piuttosto. E poi i calci d'angolo, ora non ci prova quasi più nessuno a far gol dalla bandierina. Lui invece li segnava, come ricorda bene la Roma, anno di grazia 1979, 4 marzo, stadio Olimpico. La sua unica tripletta in A fu uno show: Roma-Catanzaro 1-3. Allenatore Mazzone, terzino destro Claudio Ranieri: ma del Catanzaro, non della Roma. «Avevo segnato così anche all'andata, ma sul primo palo c'era Francesco Rocca, che aveva sfiorato la palla. Diedero l'autogol, non era come adesso che si privilegia l'attaccante, nonostante una poderosa campagna di stampa che chiedeva di assegnare il gol a me». Al ritorno, a Roma, gli bastarono cinque minuti e un angolo sotto la Curva Nord: palla a giro, niente da fare per Paolo Conti. Poi ne fece altri due, uno di sinistro, uno di destro, e Catanzaro sesto in classifica a due terzi del campionato.

    Merito del piede così piccolo? «Di sicuro mi aiutava. Ma di base c'era un grande lavoro». Una tecnica allenata sin da bambino: il padre, Renato, era il custode del campo di Porto Recanati, la casa di Palanca era a bordo campo. «Eravamo in otto in famiglia, due maschi e sei femmine. E noi, io e mio fratello Gianni, più grande di cinque anni e molto più bravo di me, eravamo sempre in campo, a provare e riprovare». La sua carriera partì da lì, Camerino, poi Frosinone, quindi Catanzaro, «dovevo andare alla Reggina, ma retrocesse, allora mi prese il Catanzaro. Avevo la Calabria nel destino, evidentemente. E pensare che all'inizio ebbi dei problemi ad ambientarmi: poi fu un trionfo». Non altrettanto successo ebbe a Napoli: «Il più grosso rimpianto della mia vita. Ti vuole il Napoli, mi disse Landini, il ds. Non lo feci finire, gli dissi subito di sì. Ma forse fu la responsabilità, le tante attese su di me, non so, ma sbagliai subito due rigori in Coppa Italia, e mi bloccai».

    Quel suo Catanzaro - vi ritornò a fine carriera e fu di nuovo amore, e altri gol, anche una promozione - è rimasto nella storia, e loro, molti dei protagonisti di quel gruppo, si sono tenuti in stretto contatto, consci che si trattasse di un'alchimia irripetibile. «Da Ranieri, che ora è una star, a Massimo Mauro, che cominciava allora e si vedeva che aveva talento. E poi Carlo Mazzone, il migliore tecnico che abbia mai avuto: una grande persona, soprattutto». Ma il terminale di tutto era lui, inconfondibile nella sua maglia rigorosamente numero undici, con lo stesso profilo che oggi si presenta sui campi marchigiani a scoprire altri mancini. «Beh, ora sono un po' ingrigito», schivo come allora, «non è che vado in giro a dire io sono questo, e ho fatto questo e quello». Anche perché basta solo un calcio d'angolo per far viaggiare la memoria di chi ha avuto la fortuna di ammirarlo: Massimo? Era 'na molla...


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