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  • Napule è, Pino e i suoi fratelli da Ciro

    Napule è, Pino e i suoi fratelli da Ciro

    • Marco Bernardini
    Domani avrebbe potuto festeggiare il suo sessantunesimo compleanno. Lo avrebbe fatto, come sempre, andandosi a godere il “suo” Napoli nello stadio del San Paolo per poi far ritorno, la sera, di nuovo nella campagna maremmana dove si era trasferito a vivere come accade per ciascun napoletano che per troppo amore è costretto a lasciare la sua città pur di non essere costretto a guardare e a vedere. Una sorta di doloroso, ma fatale, auto-esilio praticato prima di lui dai De Filippo, De Sica, Troisi, Murolo, Totò, Caruso e da tutta quella nobile “napoletanità popolare” che trovava insopportabile l’idea di dover invecchiare rendendosi complice di un delitto per eutanasia di una città unica al mondo. Soltanto dopo il volo definitivo ci sono tornati. Lui no. Le sue ceneri, dopo essere state esposte per una celebrazione lesta in piazza del Plebiscito, ora si trovano nel piccolo cimitero di Magliano vicino a Grosseto.  Qui, domani, verrà ricordato il “non compleanno” di Pino Daniele.

    Domani, giorno di partita, gli altoparlanti del San Paolo nel momento in cui le squadre entreranno in campo spediranno versi il cielo le note di “Napule è”, un capolavoro di canzone che per un certo periodo “oscurantista” era stata “vietata” da qualche personaggio troppo scaramantico perché, si diceva, “portasse sfiga”. In realtà se la squadra toppava in campo la responsabilità non era certo da attribuirsi a quella struggente melodia e a quei versi carichi di amore e di pallone e di sfide “mille culuri…e vej bianconeri”. Lo ha stabilito, ragionevolmente, il patròn De Laurentiis ricordando che anche lui, nel tempo, commissionò le colonne sonore di un paio di film della sua produzione proprio al grande cantautore e poeta nato in un “basso” della città e diventato celebre in tutto il mondo per la sua musica. Così, per una volta ancora e leggero come il vento, Pino Daniele tornerà al fianco dei suoi amici. Perlomeno degli eredi di coloro che, negli anni Ottanta e Novanta, furono per lui autentici fratelli.
    Già in altre occasioni ho avuto modo di raccontare di come e di quanto Napoli mi stia nel cuore. La città con le sue bellezze troppo spesso mortificate e la gente tanto più povera fuori quanto più ricca dentro. Un’umanità che ti senti addosso, insomma, e che ti spinge a pensare “Vorrei proprio essere nato qui e viverci”, salvo poi rivedere la riflessione per le troppe controindicazioni provocate dalla cattiva amministrazione e dalla camorra. Qui dove il cuore del pallone pulsa in maniera vertiginosa e però con naturalezza. Per vocazione, non per nevrosi. E gli effetti, sulla gente, sono differenti da quelli spesso folli e dopati che in altre piazze provocano disastri assortiti. Il calcio in pommarola è felicità ed è leggerezza. Il suo sapore non lascia mai l’amaro in bocca. Semmai invita a cantare e a suonare, tutti insieme.

    Come quella sera, di tanti anni fa, a casa di Ciro Ferrara “’n coppa a Posillipo”. A scudetto ormai vinto era lecito “pazzià”, per una notte. Avrebbe dovuto essere un “dopocena” per pochi intimi. Prima della mezzanotte l’appartamento del capitano era un alveare in piena e frenetica attività festaiola. Ciascuno a rappresentare se stesso, soprattutto, come era desiderio del padrone di casa. Nessun giornalista. Antonio Corbo, Angelo Rossi ed io avevamo lasciato i taccuini in automobile. Nessun dirigente Luciano Moggi, in maglietta Lacoste, sembrava un ragazzino che ha bigiato la scuola. Nessun personaggio. Massimo Troisi e Lina Sastri avevano i sandali ai piedi. Nessun campione. Diego Maradona, jeans arancioni e t-shirt gialla, appoggiato alla parete ritmava con il piede destro la musica dello stereo. Carmando, il masseur-confidente, preparava i cocktails. Armandino Aubry, il re dei tassisisti napoletani di origini nobili, gli onori di casa. Mancava nessuno. Come negli spogliatoi dopo la partita. Anzi di più. Erano tutti i fratelli di Pino Daniele. Diego il più caro di tutti al cantautore che naturalmente, aveva portato la chitarra. Un’altra saltò fuori da un armadio di casa e finì tra le braccia di Corradini menestrello per diletto. Massimo Mauro al pianoforte. Pentole, coperchi e bicchieri erano perfetti come strumenti di percussione. Mogli, fidanzate e amiche si inventarono vocalist-coriste.  Dopo un  “a solo” dedicato tutto a Maradona da Pino (“Tango de la buena suerte”) partì la “jam session”. Fu lunga e bellissima. Ciro ci cacciò tutti un poco traballanti ma tanto felici che l’alba stava cominciando a carezzare Napoli, sotto Posillipo.
     

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