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Non rispettano la storia, ma sanno come fare business: ecco perché la Serie A parla sempre più straniero

Non rispettano la storia, ma sanno come fare business: ecco perché la Serie A parla sempre più straniero

  • Giancarlo Padovan
    Giancarlo Padovan
L’Inter è dei cinesi, il Milan di un fondo americano, la Roma di Pallotta, il Bologna di Joe Saputo e, da lunedì, la Fiorentina sarà di Rocco Commisso. In attesa di sapere se Ferrero cederà la Sampdoria, anche in questo caso a fondi esteri, la strada è tracciata: il nostro campionato sta diventando sempre di più terreno di conquista degli stranieri. O, come nel caso di Commisso, di emigrati di ritorno. I soldi, però, vengono da fuori. Lamentarsi di una situazione del genere non è propriamente coerente. Da almeno un decennio si invocava l’intervento di capitani e capitali stranieri, chiedendosi, un po’ ingenuamente perché preferissero la Premier o perfino la Championship, anziché la nostra Serie A. Poi, quando è accaduto e abbiamo scoperto che i nuovi arrivati sono come gli italiani e pure peggio, abbiamo rimpianto gli imprenditori illuminati del tempo passato che avevano rispetto per l’identità (maglia, bandiera, territorio) e per la storia (conquiste, sconfitte, aspettative dei tifosi).

Così, se Pallotta non rinnova il contratto a De Rossi, non è infrequente ascoltare l’invettiva di chi si chiede: “Che ne può sapere un americano di quel che rappresenta il capitano dei giallorossi per la Roma?”. Domanda legittima, se non fosse che Pallotta ha salvato e quasi risanato la Roma da una situazione catastrofica. Poi - come diceva Gaber degli americani- “la storia non li ha mai intaccati”. In realtà molti di noi vorrebbero che gli stranieri (americani, arabi, cinesi) arrivassero con camionate di soldi, li investissero praticamente a fondo perduto nel club di riferimento e non traessero vantaggi dall’acquisizione della società. Invece spesso, per non dire sempre, chi compra ha un progetto preciso: se da una parte punta alla costruzione del proprio stadio (un generatore di profitti), dall’altra vuole una diminuzione dei costi di esercizio. Abbattere gli stipendi più alti, come quello di De Rossi, è una priorità, soprattutto se il calciatore ha 36 anni e un fisico usurato.

Insomma, anche gli stranieri sono imprenditori che arrivano, analizzano, tagliano e poi investono in modo oculato. Tra gli attuali fa eccezione, forse, Suning che non ha alterato l’assetto, ma ha rinforzato il parco dirigenti ingaggiando Beppe Marotta, fino a poco tempo fa amministratore delegato della Juventus. I restanti non sono disposti a creare carriere parallele. Elliott ha prima affidato a Leonardo e Maldini  un piano di sviluppo tecnico, ma ad avere i pieni poteri adeso è Gazidis che probabilmente si priverà di entrambi. Non ci sono rendite di posizione, non ci sono simboli intoccabili. Anzi la spregiudicatezza del management fa spesso la differenza nelle nuove proprietà. Zhang ha quasi completamente confermato quella italiana, il Milan si ispira ad un modello inglese, Pallotta alterna i dirigenti ascoltando molto Franco Baldini, il Bologna naviga a vista in realtà senza un orizzonte dichiarato.

Sarà interessante vedere cosa farà Commisso, soprattutto se saprà riscattare la delusione che hanno rappresentato i Della Valle. Ero convinto che avessero capacità imprenditoriali per migliorare il calcio, invece è stato il calcio che li ha peggiorati sia a livello di scelte che di consenso. Il punto è che il calcio è un’industria anomala, c’è chi ci guadagna, ma la maggioranza perde danaro e credibilità. Gli stranieri, però, hanno una caratteristica finora poco o per nulla smentita. Se comprano club italiani difficilmente mollano alle prime difficoltà. Segno che il business del nostro calcio non è  presente solo in “nuce”, ma è concreto. E può portare all’attivo in pochi anni.   

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