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  • Pantani, nel nostro cuore. Per sempre

    Pantani, nel nostro cuore. Per sempre

    (x.j.) 14 febbraio 2014 - 14 febbraio 2004. Dieci anni fa, Pantani. Marco vive nel nostro cuore. Per sempre.
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    Caro Direttore,
    questo articolo è dedicato ad uno dei personaggi sportivi che Titta Pasinetti, straordinario giornalista sportivo, inviato del Giornale scomparso nel 2003 all'età di 50 anni, amò di più: Marco Pantani, intervistato a Cesenatico a dicembre ’95 dopo che il campione era stato investito per due volte (l’articolo è corredato da una foto di Pantani vestito da Babbo Natale, con le stampelle in spalla. Ha un sorriso bellissimo). 

    Il 13 aprile 2003, Pantani è l’unico ciclista a ricordare Titta dedicandogli un necrologio. Il 23 maggio gli ho portato, al via di tappa a Pordenone, la lettera che Titta aveva lasciato a tutti noi amici. Ritenevamo giusto l’avesse anche lui. Ha sorriso e mi ha fatto una carezza col guantino a mezze dita. Sarebbe stato il suo ultimo Giro. 

    Antonella Antonello

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    Il Giornale, 18 dicembre 1995

    Tornerà. Dio gli renderà quello che gli uomini credono di avergli sottratto. Stoltamente, goffamente armati di certe macchine, che più lo colpiscono più gli danno forza. Marco Pantani tornerà.
    I suoi genitori lo portarono presto da Cesena a Cesenatico e in riva al mare l’ultima cosa che avrebbero voluto fargli fare era il ciclista, ma… “Più mio papà e mia mamma mi ostacolavano e più mi veniva voglia di farlo.” Segnali.
    Come quel bar gelateria del Corso affacciato sulle ombre del presepe galleggiante sul canale dell’antico porto disegnato da Leonardo da Vinci: è la sede del club Forza Pantani. Dentro, in fondo, appoggiata ad una parete di legno, c’è una biciclettina pesante e mezza arrugginita col cartellino “la prima bici di Pantani”. Quella con cui vinceva a dieci anni quando sulla maglia del suo primo gruppo sportivo aveva scritto “Coppi”. Adesso, al bar, di fianco alla foto del grande Fausto, c’è appesa anche la sua. Tutt’e due in salita, tutt’e due con le gambe affusolate che sembrano rompersi ad ogni colpo di pedale e lo sguardo decisissimo che punta alla cima. Segnali. Come quello che Marco pensa di Coppi: “Il simbolo del ciclismo, l’uomo che ha vissuto fra sfortune e trionfi, l’essenza dello sport.” Coppi ancora oggi è un mito, e probabilmente a rendere immortali le sue vittorie sono state ancora di più le sue sfortune, i suoi gravissimi incidenti contro cui ha lottato per alla fine rinascere. Oggi, lunedì 18 dicembre, Marco va alla clinica san Rocco di Brescia, dal professor Terragnoli, per sapere se potrà rinascere. Se ha fatto il suo dovere quel ferraccio un divaricatore di ossa lungo 30 centimetri, che gli sporge dalla tibia sinistra da metà ottobre, da quando si è schiantato contro un jeppone, alla Milano-Torino: “Mi si sono frantumate le ossa in tanti pezzettini, la calcificazione è lenta, non so se sufficiente, e oggi saprò se l’opera di questo ferro è bastata oppure se dovrò subire un’altra operazione.”
    Stupisce che dai quei pochi centimetri di muscoli ingabbiati si sviluppi tanta potenza. Lui è piccolo, esile, si trascina con le stampelle, ma non certo curvo e intristito nel suo male e nelle sue paure. Incontrarlo è un’illuminazione. Non sono certo i due orecchini ai lobi o la rasata totale che gli danno l’aria da duro. Sono la convinzione, la consapevolezza, la metodicità con cui insegue la guarigione, che gli rasserenano il volto. Una serenità contagiosa, un esempio per chiunque sia malato. E poi la sua posizione nei confronti ella sfortuna: “E’ vero, solo nel 1995 sono stato investito due volte dalle macchine. Il primo maggio a Bellaria mentre mi allenavo per il Giro ‘Italia che ho dovuto saltare per i fortissimi dolori al ginocchio, poi durante la Milano-Torino. Io perseguitato dalla sfortuna? No, non credo proprio, solo casualità”, e la tronca lì, senza rimpianti e lamenti contro il destino. Marco si muove e pensa con la dignità, innanzitutto. Andare a casa sua, che pure sta in un condominio senza pretese, in un giorno di dicembre, ha qualcosa di magico. Riceve centinaia di lettere, Marco Pantani Via dei Mille 136, non nasconde l’indirizzo; quotidianamente riceve fotografi e giornalisti, come riceve e si fa fotografare dai tifosi in pellegrinaggio; un po’ discosta, per se stesso, tiene la foto di Fabio Casartelli dentro una cornice d’argento; lascia il cellulare sempre aperto: “Così chi ha bisogno di telefonarmi mi telefona. Indurain mi chiama spesso, mi dice due cose in spagnolo, bueno, Marco, tranquillo, pazienza, lui c’è, come tanti altri. Altri che invece dovrebbero esserci, non ci sono. Pazienza.”
    Non ha un attimo di pausa, e ogni giorno la sua rinascita passa da Forlì, una trentina di chilometri in macchina fra stradine di campagna, accompagnato da qualcuno, un giorno anche da noi, per andare al centro di Fabrizio Borra, il bravissimo rieducatore che, dopo una vestizione quasi solenne con un gambale impermeabile, lo fa lavorare duramente in una piscina speciale, dove un arto infortunato può lavorare senza i traumi causati dalla mancanza di equilibrio e dell’impatto sul terreno.
    Nell’acqua, Marco può produrre il massimo sforzo a 185 battiti cardiaci al minuto. Ed è proprio vederlo faticare, dannarsi come se fosse all’ultimo chilometro dell’Alpe d’Huez, che convince e contagia. L’ha fatto per più di un mese, appena sceso dal letto, solo con lo scopo di mantenere la tonicità muscolare, per sapendo che forse lo attende una seconda operazione. Ma è questo lo straordinario: “So che le guarigioni hanno diverse cause, l’intervento conta il 30 per cento, la riabilitazione pure, la volontà il quaranta. Ecco, io punto soprattutto su quella, so di gente che con la volontà ha fatto miracoli. Chissà che proprio quella mi aiuti a evitare il secondo intervento, a guarire e a tornare prima alle corse. Dicono che bene che vada potrei essere al Tour? E io invece vorrei essere al via del Giro d’Italia ad Atene.” E’ il più colpito, eppure alla fine del 1995 resta anche il più vincente degli italiani. E’ rinato per conquistare due epiche tappe al Tour (Alpe d’Huez e Guz à Neige)e il bronzo ai Mondiali, salvando la spedizione italiana. Non era la prima volta che rinasceva: al Tour ’94, caduto rovinosamente contro le rocce all’inizio della tappa, piangendo, col ginocchio gonfio e tumefatto, sulla rampa finale attaccò Indurain.
    Marco è un esempio,senza pretendere d’esserlo per come non si rannicchia sulla iella, per come l’accetta con fatalismo e serenità: “Probabilmente sono tutte prove che qualcuno ci manda per diventare più forti. Se lo sai, accetti il sacrificio e la sofferenza senza prendertela con nessuno, ma sperando che un giorno sarai migliore.” Un angelo? Gesù sta nascendo a Cesenatico? Sopra il tetto di Via dei Mille 136 c’è una stella cometa? Lui, con i diavoletti disegnati sul cuore e sui bicipiti con quella faccia satanica? Con quell’animo così spietato perché i vincenti devono essere spietati? Eppure, guardate bene le foto di un anno fa e quelle di adesso. Quanto era brutto, randagio e spelacchiato un anno fa quando vinceva a Merano e all’Aprica, prima di conoscere la sofferenza, e quanto è più bello, limpido e carismatico, adesso che ha conosciuto la sofferenza e già due volte è rinato. Tornerà.

    Titta Pasinetti

     

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