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Pernambuco: Pirlo e Buffon, poi il vuoto

Pernambuco: Pirlo e Buffon, poi il vuoto

Bertrand Russel diceva che l’essenza del pensiero filosofico consiste nel porre domande più che dare risposte precise. I buoni quesiti generano riflessione e sviluppo di conoscenza anche e soprattutto se non offrono risposte certe ed esaustive al 100%. Le risposte, visto che la certezza assoluta non esiste, sono relative e “generative” di altre domande. E’ un po’ quello che avviene nell’ articolo di Mario Sconcerti, il quale sul Corriere della Sera, si domanda come mai negli ultimi 10 anni non siano venuti alla ribalta calciatori italiani da poter definire “campioni veri e propri”? Siamo rimasti, ed è vero, a Totti, Pirlo, Buffon. Personalmente aggiungerei, per continuità, duttilità e “fisico” anche Marchisio, ma il panorama non cambia. E’ difficile dare una risposta precisa a questo quesito, il cui primo esito è il grigiore che pervade da  tempo la Nazionale.

Una globalizzazione sempre più estesa, con relativo impoverimento dei vivai italiani, è certamente una delle cause, ma il fenomeno è nato molti anni fa, forse troppi per risultare determinante. La virtualizzazione del calcio è un’altra chiave. Abbiamo un calcio sempre più rappresentato, sempre più visto, sempre più vivisezionato rispetto a quanto sia giocato. E’come se ci fosse un eccesso di racconto  rispetto alla voglia di vita in presa diretta. Farebbe parte insomma, di quella sindrome, che ormai pervade gran parte della nostra vita, e che dà luogo alla ben nota Società dello Spettacolo, per cui all’esperienza vera e propria preferiamo sempre più la sua rappresentazione. Esauriamo  nelle immagini il nostro desiderio: una specie di porno calcio. E difatti, dal Subbuteo e dal calcio balilla siamo passati alla Playstation e alle vivisezioni di You Tube.

Non c’è un giocatore professionista di cui non si possa prendere visione. Sono moltissimi i giocatori che pensiamo di conoscere bene perché compulsiamo i loro siti e spulciamo fra i loro highlights. E’ un fenomeno che coinvolge tutte le generazioni e tutte le età, divenute immensamente più forti di prima davanti agli schermi delle televisioni e dei computer, ma, parliamo soprattutto dei giovani, molto meno curiose e avide di provare cosa sia il calcio giocato, tanto lo sanno già. Anche questa spiegazione, però, risulta assai incompleta. Non si capirebbe, infatti, come mai in altri Paesi la fioritura di campioni sia più nutrita. Forse è l’Italia ad essere molto cambiata. Ormai più ricca, articolata e complicata di prima vede nel calcio dei cortili, dei prati, delle spiagge…un gioco troppo semplice. Date a un bimbo un pallone e non si sentirà solo, siamo d’accordo, ma quello che manca sempre più è il contesto in cui far rotolare e rimbalzare la magica sfera: gli spazi, il tempo, la disponibilità degli adulti.

Chi non ha iniziato il calcio eroico col proprio padre o col proprio zio, uno contro uno, passaggi, tiri, dribbling e racconto in diretta? Un gioco semplice ed elementare capace di risultare epico. Soprattutto un gioco, fatto di libertà, confidenza, casualità, concentrazione. Oggi, coi genitori straimpegnati, le parrocchie svuotate, le corti condominiali piene di macchine e divieti, è restato qualche spiazzo periferico e qualche tiro della domenica in un parco che non sia attraversato da cani e mountain bike. A 5 anni, se va bene, si va  in una squadra a disposizione di orari e allenatori; a 7 si dovrebbe già diventare fenomeni, coi genitori che sbavano e imprecano al di là delle reti (di contenimento). Il gioco se ne va per lasciare il posto a un misto di dovere e ansia di prestazione. “Già - si dirà - e la Germania, più ricca e organizzata di noi, non sforna forse campioni?” Già, ma noi siamo uno strano Paese, sempre in bilico tra spontaneità e organizzazione; capace per tante ragioni, di abbandonare la spontaneità, ma incapace di giungere a una “modernizzazione” compiuta. Siamo in mezzo a un guado e anche il nostro calcio lo è.

Fernando Pernambuco

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