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  • Pippo Russo: Doyen, Milan e la colonizzazione del calcio italiano

    Pippo Russo: Doyen, Milan e la colonizzazione del calcio italiano

    Tra mister Bee e il signor B. c’era dunque il fattore D. Che sta per Doyen Sport Investments, il nome del più potente fondo d’investimento che commercia in diritti economici di calciatori, ma non soltanto. La notizia è di oggi e dissolve uno dei dubbi più insistenti intorno alla possibile scalata alla proprietà del Milan da parte del finanziare thailandese Bee Taechaubol: chi si muove dietro di lui? La risposta è arrivata oggi, riportata dalla Gazzetta dello Sport. A condividere quest’avventura con mister Bee è il fondo che ha sede legale a Malta, e fa capo al più ampio e misterioso Doyen Group, una holding con sede legale a Istanbul e braccio finanziario a Londra dove ha sede la Doyen Capital LLP. A  proposito di Doyen Group, mettetevi il cuore in pace: ogni domanda sui suoi finanziatori è destinata a rimanere inevasa. Le sole notizie di cui si è a conoscenza riconducono ai ricchi imprenditori turchi Tevfik Arif (di origine kazaka nonché socio di Donald Trump) e Fettah Tamince. Quanto alle attività del Doyen Group, le informazioni sono state modificate nel corso del tempo. Nel periodo in cui il nome di questa holding prese a essere associato al mondo del calcio, quando a ottobre 2011 si venne a sapere di un vasto piano di sponsorizzazioni ai club della Liga spagnola e di rastrellamento di giovani calciatori delle canteras, Doyen Group aveva un sito web attivo e un portafoglio di campi d’investimento estremamente variegato: hospitality, infrastrutture, idrocarburi, energia e gas naturali, metalli, e la coppia sport & entertainment. Ma da oltre un anno la presentazione della holding è stata modificata. Il sito web si riduce a una homepage statica, e lì si legge che i campi d’azione sono stati ridotti a quattro:  la generica voce commodities, finanza, edilizia (“inclusi hotel e real estate”, come viene specificato), e sport & entertainment. In compenso sono molto sviluppati i siti e le attività di Doyen Sport Investments e della fresca Doyen Global. La prima si occupa di investimenti in diritti economici sui calciatori, scommettendo sulla loro futura rivendita e speculandoci sopra. La seconda è nata nel 2013 per merito soprattutto di Simon Oliveira, il principale artefice della trasformazione di David Beckham da semplice calciatore in brand globale, e Matthew Kay, ex dirigente del colosso Creative Artists Agency (CAA), un’agenzia globale che detiene le procure di molte fra le più importanti star contemporanee della musica e dello spettacolo. Doyen Global lavora sui diritti d’immagine, e attraverso questo strumento si è annessa personaggi del mondo del calcio quali Diego Simeone, Januzaj, Neymar. L’agenzia si porta in dote anche l’esperienza in materia di gestione dell’immagine di personaggi sportivi ai tempi in cui Kay lavorava con CAA, e la sua agenzia di allora stringeva accordi in materia con la Gestifute di Jorge Mendes per la gestione dei brand di Cristiano Ronaldo e José Mourinho. Sul web è ancora possibile trovare notizie in proposito, datate luglio 2008, ma ormai son cose passate. I rapporti fra Mendes e Doyen si sono deteriorati dopo un periodo iniziale di alleanza, e un recente sgarbo di calciomercato fatto dal fondo maltese al superbroker portoghese ne è testimonianza. Lo scorso novembre Doyen ha soffiato Douglas Coutinho dell’Atletico Paranaense a Deco, ex calciatore brasiliano naturalizzato portoghese del Porto e del Barcellona. Deco è il rappresentate in Brasile di Mendes, e quell’intromissione di Doyen è un segnale del fatto che al di là degli interessi in comune fra le due parti (a cominciare dal controllo di Radamel Falcao), l’alleanza s’avvia a rompersi. Si marcia separati.

    E Doyen si muove continuando a mietere diritti economici e a stringere accordi coi club. La partnership con l’Atletico Madrid ha fatto storia, così come quella col Siviglia. E in Portogallo il legame coi tre club storici è stato molto solido, sia pure con percorsi diversi. I risultati di queste partnership? Ottimi per il fondo, per i club non altrettanto. A questi ultimi tocca valorizzare i calciatori controllati dal fondo e cederli immediatamente quando la loro quotazione si alza, percependo molto meno di quanto potrebbero se disponessero per intero dei diritti economici. È anche per questo che da agosto del 2014 è in atto un conflitto fra lo Sporting Lisbona e Doyen a proposito della cessione dell’argentino Marcos Rojo al Manchester United. Una cessione determinata dalle pressioni fatte dal calciatore, che a Lisbona non voleva più rimanere. Il sospetto era che a aizzare il calciatore fosse Doyen, proprietario del 75% dei diritti economici sul calciatore e interessato a mettere a frutto il suo buon rendimento ai mondiali brasiliani di poche settimane prima. Lo Sporting cedette alle pressioni lasciando andare via Rojo, ma restituì a Doyen solo i 3 milioni dell’investimento iniziale e non il 75% dei 20 milioni spuntati per la cessione ai Red Devils. La controversia fra le due parti è ancora in corso. Bisogna tenere conto anche di episodi come questo quando si guarda al modo in cui i fondi d’investimento si rapportano ai club. Anche per non dar retta alle versioni dei fatti come quella diffusa oggi da Carlo Laudisa sulla Gazzetta dello Sport, laddove si dice che Doyen ha finanziato “operazioni che hanno fatto la fortuna di Porto e Benfica”. Non so di quali fortune parli Laudisa, ma per chiarire le idee anche a lui cito come esempio una “fortuna” regalata da Doyen al Porto. La scorsa estate i Dragoes hanno acquistato dal Granada della famiglia Pozzo il franco-algerino Yacine Brahimi per 6,5 milioni, dandone comunicazione all’autorità di borsa portoghese come da obbligo per le società quotate. Due giorni dopo il club ha comunicato alla stessa autorità di borsa (la CMVM) di avere ceduto un 80% di Brahimi a Doyen per 5 milioni. Si è fatto subito fatto notare che l’ottanta per cento di 6,5 milioni sarebbe 5,2 milioni: dunque in soli due giorni il Porto ci ha rimesso 200 mila euro. Ma non è ancora tutto. A settembre scorso il periodico algerino Le Buteur ha pubblicato la notizia di una clausola di recompra tra Porto e Doyen. Il club può ricomprarsi da Doyen la quota di Brahimi per 8 milioni. Capito? Dunque, rifacendo i calcoli, un giocatore comprato da un club a 6,5 può essere ricomprato dallo stesso club a 9,7, cifra che è la somma dei seguenti saldi: gli 1,5 milioni della differenza fra l’acquisto dal Granada e la vendita di 80% a Doyen (6,5 milioni – 5 milioni), più gli 8 milioni a Doyen per la recompra, più i 200 mila euro spariti in due giorni. Il tutto senza che il giocatore si sia mai mosso dal Porto. Quando parli delle “fortune del Porto” intendi questo, caro Laudisa? A me sembra invece che siamo davanti a un meccanismo molto simile a quello dei subprime.

    A ogni modo, dobbiamo tornare ai giorni nostri e all’ipotizzato sbarco di Doyen al Milan. Uno sbarco che viene da lontano. Precisamente, risale a un weekend di luglio 2013. Allorché, in un hotel di Taormina di proprietà di Antonino Pulvirenti, presidente e proprietario del Catania che faceva gli onori di casa assieme al suo vicepresidente argentino Pablo Cosentino (che a sua volta aveva appena rimesso la licenza da agente Fifa, e si apprestava a far sprofondare il Catania dalla serie A alle soglie della Lega Pro), si diedero convegno Claudio Lotito, Enrico Preziosi, Adriano Galliani, e il portoghese Nelio Lucas. Quest’ultimo, noto a pochi, era già il CEO di Doyen Sport Investments. Quasi tutta la stampa italiana non capì per niente il senso di quel meeting, soffermandosi soprattutto sulle orrende foto di Adriano Galliani che faceva il morto in piscina. Il senso fu un po’ più chiaro quasi un anno dopo, quando Lucas annunciò a Marco Bellinazzo del Sole 24 Ore l’intenzione di Doyen d’investire 200 milioni in Italia. In calciatori, o in altro?

    Una risposta giunta adesso, giusto nel periodo in cui la Fifa prova a mettere al bando fondi e TPO. Chi ha la bontà di seguirmi sa che scrissi molto in anticipo del modo in cui i fondi si stanno attrezzando per aggirare il divieto: comprando i club. Ma mai avrei pensato che potessero mirare così in alto. Perché un conto è acquistare società della B portoghese o della C spagnola. Altro è dare la scalata a uno dei più gloriosi club al mondo, entrando nella proprietà. Un atto di forza, persino di arroganza, quello di pensare che un club come il Milan possa diventare un mero strumento per condurre operazioni di speculazione finanziaria attraverso la compravendita di calciatori. E ancora non sappiamo l’ipotesi di un ingresso di Doyen nella proprietà del Milan sia soltanto di un rumor o se la cosa possa andare davvero a segno. Però l’ipotesi è già più che sufficiente, e sposta una spanna in avanti il livello della contaminazione. Soprattutto, lancia un segnale definitivo sulla decadenza del calcio italiano, ormai ridotto a terreno di caccia per gli attori dell’economia parallela del calcio globale. Se persino un club con la storia, la gloria e il peso del Milan può essere scalabile da un fondo d’investimento che commercia calciatori, ciò significa che il calcio di questo paese è definitivamente scaduto al livello di provincia nell’assetto globale del pallone. Senza nessuno strumento d’autodifesa, e senza che da chi ha la responsabilità di governare il movimento giunga un segnale di reazione.

    @pippoevai

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