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  • Pippo Russo MEMORABILIA: Pronti via e Tardelli schianta Rivera
Pippo Russo MEMORABILIA: Pronti via e Tardelli schianta Rivera

Pippo Russo MEMORABILIA: Pronti via e Tardelli schianta Rivera

L’ammonizione più veloce nella storia del calcio: due secondi e rotti. Succede domenica 5 novembre 1978, sesta giornata di campionato. Data che oggi sarebbe tardiva per una sesta di campionato, ma a quel tempo la serie A iniziava la prima domenica di ottobre. Si affrontano Juventus e Milan allo Stadio Comunale, e il calcio d’inizio tocca ai rossoneri. Bigon tocca a Rivera, che deroga dalla prassi e anziché smistarla indietro prova subito l’avventura nella metà campo avversaria. Mal gliene incoglie. Non s’accorge nemmeno che dal momento in cui la palla è in gioco un bianconero è già lanciato in rotta di collisione verso di lui (foto milanorossonera.it). Le immagini (QUI) permettono di vedere il calciatore juventino come stesse in attesa del fischio d’inizio, coi piedi ben piantati sulla riga del cerchio di metà campo. Si tratta di Marco Tardelli, che come udisse lo sparo dello starter scatta da centometrista per andare a sradicare da terra l’avversario. Intervento a forbice da dietro, palla e caviglie. Al giorno d’oggi si viene espulsi per falli molto meno brutali. Ma erano tempi tolleranti. Sicché l’arbitro D’Elia di Salerno si limita all’ammonizione, e giusto perché proprio non se ne può fare a meno. Lecito parlare di intervento intimidatorio? Beh, se non in questo caso, allora quando? Fra l’altro, se l’intento è quello, l’obiettivo è raggiunto.

Perché il Milan, capolista del campionato che si concluderà con lo scudetto della stella, rimane intimorito da quell’avvio dei bianconeri che definire virile è un eufemismo. E perché al terzo minuto la Juventus segna il gol che decide la partita. Lo realizza Roberto Bettega su azione da calcio d’angolo, e osservando il comportamento della difesa rossonera se ne può dedurre che il livello di serenità non fosse al massimo. Per il Milan è la prima sconfitta del campionato, e nella parte restante del torneo ne subirà soltanto altre due: al Partenio di Avellino alla prima di ritorno, e poi a San Siro contro il Napoli alla settima di ritorno. Momenti di fragilità che la squadra allenata da Nils Liedholm assorbe e supera. Si tratta di una squadra eretica, sotto diversi aspetti. Innanzitutto perché pratica il calcio a zona, in un’epoca nella quale la zona è roba aliena per il calcio italiano. E poi perché schiera un centravanti che si chiama Stefano Chiodi, e che a fine torneo presenterà uno score di 7 gol, di cui 6 su rigore. E certo come rigorista se la cavava, tirando delle botte micidiali dal dischetto che lasciavano poco margine ai portieri. E però, trovatemi un altro caso nella storia del calcio in cui una squadra che vince un torneo schierando un centravanti capace di segnare un solo gol su azione in tutta la competizione. La verità è che quel Milan era una cooperativa. Quell’anno il suo capocannoniere, con 12 gol, fu Alberto Bigon, centrocampista con buone doti offensive ma non certo una mezza punta. Questo era il Milan che Liedholm avrebbe condotto a vincere il decimo scudetto. Una squadra stramba e estetizzante, cui talvolta capitava di pagare le alte temperature agonistiche. Come quella della gara giocata al Comunale.

Per i bianconeri, invece, quel successo contro il Milan è un momento di sollievo. È la terza Juventus guidata da Giovanni Trapattoni, le due precedenti si erano aggiudicate lo scudetto. Ma in questo caso la stagione parte maluccio, anche perché la squadra è un po’ scarica dopo il mondiale d’Argentina, che aveva visto la nazionale di Enzo Bearzot fare leva sul blocco juventino. Nella partita vinta contro i padroni di casa, che poi si sarebbero laureati campioni del mondo, per gran parte dei 90 minuti i bianconeri in campo per l’Italia furono 9. Dai reduci di quel mondiale ci si attende un campionato da sfracelli e il terzo scudetto consecutivo. E invece la Juventus parte lenta e non recupera più, rimanendo per tutta la stagione a distanza rilevante dal primo posto. Finirà terza a sette lunghezze dai rossoneri. E in un torneo da 30 giornate, ai tempi in cui la vittoria vale ancora due punti e non tre, uno scarto di sette punti è cosa significativa. Soprattutto, quando riceve il Milan la Juventus ha già fatto esperienza sulla propria pelle della nuova forza del campionato: il Perugia di Ilario Castagner, che due giornate prima ha espugnato il Comunale al termine di una gara passata alla storia (QUI), e che avrebbe concluso quel campionato al secondo posto e imbattuto. Dunque per la squadra di Trapattoni il momento è critico. E la tensione si accumula in modo particolare sul suo calciatore più emotivo, uno dei duellanti di questa storia: Marco Tardelli.

Per me è stato il più grande calciatore italiano fra quelli che ho visto in azione. Per duttilità, qualità tecniche e atletiche, spirito di sacrificio, coraggio, e soprattutto temperamento, è il giocatore che avrei sempre voluto in una mia squadra. Enzo Bearzot lo chiamava “il coyote”, un nomignolo nato dalle notti insonni che i due e Bruno Conti passavano alla vigilia delle partite di Spagna 1982. La tensione scacciava il sonno, e allora i tre si ritrovavano a fare lunghe chiacchierate per ingannare l’attesa. Questo era il calcio per Marco Tardelli, cui a volte capitava d’essere destinato a compiti di marcatura a uomo sull’avversario più talentuoso. Era già successo a novembre di un anno prima, quando Bearzot gli affidò Kevin Keegan in una gara decisiva per l’approdo ai mondiali d’Argentina. E si verifica di nuovo in occasione quel Juventus-Milan, allorché Trapattoni lo martella per tutta la settimana di vigilia con l’esigenza di annullare Gianni Rivera. Missione compiuta nel giro di due secondi.

L’altro duellante è lui, il capitano rossonero e uomo simbolo dello scudetto della stella. Per quanto, guardando i tabellini delle 30 gare rossonere, si scopre che Gianni Rivera è assente per grossa parte del campionato (QUI). Ma quelle volte in cui scende in campo dimostra che un dio del calcio esiste, e concede il dono della grazia pallonara a pochi eletti. Gianni Rivera è stato uno di questi. Ma in quella stagione fa anche di più. Dimostra cosa significhi essere leader. A chi oggi blatera di “calciatori che hanno carisma” dovrebbero essere mostrate le immagini di quel 6 maggio 1979. È il giorno della sua cinquecentesima partita in carriera, e al Milan basta un punto per aggiudicarsi lo scudetto. Ma c’è un intoppo. L’entusiasmo è straripante, e parte del pubblico occupa un settore inagibile di San Siro. C’è il rischio che la gara non si disputi e venga data persa a tavolino ai rossoneri. Lì Gianni Rivera, alla sua ultima apparizione nella sua casa calcistica, si prende le responsabilità di un leader. In calzoncini, maglietta e fascia da capitano, scende in campo e impugna il microfono per parlare agli ottantamila di San Siro. Il suo popolo. E li invita a ristabilire l’ordine per consentire la disputa della gara (QUI). Il popolo dà retta al suo leader, e la partita può cominciare.

Gianni Rivera annuncerà il ritiro dal calcio a giugno. Non avrà occasione di reincrociare in campo Marco Tardelli. Non era accaduto nemmeno in occasione della partita di ritorno, disputata a marzo. Un’altra partita vissuta dal Milan con grande soggezione, e terminata 0-0 anche per via di una decisione contestata. Uno spettacolare gol della Juventus a una manciata di minuti dalla fine, segnato in acrobazia ma annullato per gioco pericoloso. L’autore? Marco Tardelli, manco a farlo apposta (QUI). A volte i conti si chiudono anche in modi così indiretti.

di Pippo Russo
@pippoevai

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