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  • Pippo Russo: Schweinsteiger, vittima simbolo della guardiolizzazione

    Pippo Russo: Schweinsteiger, vittima simbolo della guardiolizzazione

    Il senso d’onnipotenza di un allenatore. Quell’ambizione di dismettere il profilo da manager per vestire quello del demiurgo, intervenendo sui destini degli uomini e delle storie calcistiche. Sono stato preso da queste suggestioni quando ho sentito diffondere le prime notizie sulla partenza di Bastian Schwinsteiger dal Bayern Monaco. Inizialmente ho creduto si trattasse della solita sparata di fantamercato. Ma quando poi è stato ufficializzato il passaggio del centrocampista tedesco al Manchester United non ho potuto fare a meno di pensare a Pep Guardiola, e all’ego totalitario che alligna dentro ogni allenatore convinto d’essere un grande della propria epoca. Un ego che chiede sazietà soltanto attraverso l’uso dell’arte di disfare e rifare da capo. Di rimettere in discussione le cose migliori e gli equilibri consolidati. E non perché minaccino di non funzionare più, ma per il puro gusto di imporre la mano taumaturgica ovunque. Anche su tutto ciò che va bene, ma che ha il torto d’essersi consolidato prima che il taumaturgo arrivasse. E allora figurarsi se uno così può tollerare la presenza di personalità che gli facciano ombra, e stiano lì a ricordargli come anche prima che arrivasse il fenomeno si fosse realizzato qualcosa di buono. Vengono percepiti come idoli da abbattere nella strada che porta verso un nuovo millenarismo. Che nel caso in questione è la guardiolizzazione del Bayern Monaco, la sua mutazione genetica imposta a tappe forzate. Qualcosa che va oltre i successi ottenuti sul campo, o la qualità del gioco messo in campo.

    Per questo assume un senso – pur distorto – la mossa di indicare la porta d’uscita a un calciatore simbolo del Bayern, candidato a essere bandiera nell’epoca in cui essere bandiere è diventato quasi impossibile. Uno che nel Bayern c’è entrato all’età di 14 anni, diventando un pilastro nel suo club e nella nazionale tedesca, con la quale ha collezionato 111 partite diventandone capitano e laureandosi campione del mondo lo scorso anno. Dunque, un simbolo non soltanto del Bayern, ma anche dell’intero calcio tedesco. Per qualità tecniche e tattiche, per doti atletiche e morali, e persino per quel nome così germanico che, parafrasando una celebre battuta di Woody Allen, al solo sentirlo nominare ti vien voglia d’invadere la Polonia. Uno così, giunto alle soglie dei 31 anni e dunque nel pieno della maturità calcistica, è stato indicato come sacrificabile dall’allenatore-demiurgo. E il club ha accettato. Da quel momento la guardiolizzazione del Bayern è entrata in un nuovo stadio, forse quello definitivo.

    A questo punto bisognerà vedere quali saranno le conseguenze di tutto ciò, per una squadra in cui fin qui l’allenatore ha avuto modo di far fuori un discreto plotone di giocatori (LEGGI QUI). Un’operazione talmente sistematica da far intravedere l’esistenza di un metodo. E ovviamente ciò non potrebbe essere provato, ma gli indizi ci sono tutti. E testimoniano della frustrazione di un allenatore arrivato con l’etichetta di vincente al posto di un collega come Jupp Heynckes che, pur non essendo altrettanto "Global Trendy", aveva appena ramazzato tutto quanto c’era da vincere. E si fa dura quando, anche se sei un vincente per definizione, arrivi in un posto dove al massimo in una stagione puoi far pari col predecessore. Infatti Pep di questo peso non si è mai liberato. Ha vinto ciò che per i tifosi del Bayern rappresenta il minimo sindacale (i trofei nazionali, oltre alla Supercoppa europea e al Mondiale per club 2013, frutti dei lasciti di Heynckes). Ma poi in Champions è stato cacciato via due volte in semifinale di Champions dalle big spagnole: la prima volta addirittura annichilito dal Real Madrid, la seconda soltanto battuto (ma in modo più netto di quanto dica lo score fra andata e ritorno) dal suo Barcellona, che invece due anni prima era disintegrato dal Bayern di Heynckes. Dunque, risultati buoni ma non certo da fenomeno globale della panchina. Accompagnati dalla netta sensazione di star subendo lo stesso "downgrading" affrontato al Real Madrid dal suo nemico storico: José Mourinho, "poucos tituli" durante il triennio trascorso presso il club più glorioso del mondo. Evidente che Pep abbia perso quell’aura d’infallibilità da cui era circondato fino alla fine della sua avventura al Barcellona, quando con sommo senso d’aristocrazia decise di prendersi un anno sabbatico e portare la famiglia negli Usa a perfezionare l’uso dell’anglo-americano. E ora reagisce a questa perdita di doti taumaturgiche spingendo fino all’integralismo la predisposizione a manipolare e demolire. Una cosa di cui i dirigenti e i tifosi bavaresi dovrebbero cominciare a preoccuparsi.

    Tanto più che c’è un precedente da cui derivano analogie inquietanti. E Pep Guardiola lo conosce bene, dato che esso riguarda proprio il suo Barcellona. Mi riferisco al periodo (1997-2000) in cui i blaugrana vennero allenati da Louis Van Gaal, che fece della squadra catalana un clone dell’Ajax (LEGGI QUI). Un’operazione sistematica di de-catalanizzazione sul corpo vivo di quello che viene visto come il principale simbolo della catalanità. Con grave disappunto dello scrittore Manuel Vazquez Montalban, grande tifoso del Barcellona (LEGGI QUI), e col lascito di una ferita profonda nell’identità barcellonista. Cui proprio il ciclo di Guardiola, col suo richiamo all’identità, ha posto definitivamente riparo. Adesso è Pep a rischiare di giocare la parte invertita in Baviera. E intanto Schweinsteiger va a Manchester, e chi trova in panchina? Louis Van Gaal. Quali spericolati corsi e ricorsi, nella storia del pallone.

    Pippo Russo
    @Pippoevai

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