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  • Quel calcio agli Europei, dove finiva il Vecchio Est e si tifava per la Romania

    Quel calcio agli Europei, dove finiva il Vecchio Est e si tifava per la Romania

    • Giampiero Timossi
    A San Gallo cantò Mutu. “Basta con la Fiorentina, voglio andare alla Roma, faglielo un po' capire tu”, disse l'attaccante della Romania. Stavo seduto nel letto vicino al suo, nel blindadissimo ritiro svizzero, nel paese dei merletti, ma non dell'arsenico. Per farglielo capire bisognava scriverlo e lo scrissi. Mutu: “Voglio la Roma”. Era l'estate del 2008. Perché prima di essere (un po') romano, io sono stato (molto) romeno. Di questo, come di molte altre avventure professionali, devo ringraziare La Gazzetta dello Sport per la quale lavoravo. Il decennio che abbiamo vissuto appartiene ormai a un'altra era geologica del giornalismo. E in quell'era gli inviati venivano inviati. La mia base era in Toscana, nella Fiorentina giocava il campione romeno, stella del campionato italiano, insieme a Chivu, connazionale dell'Inter. L'equazione era presto fatta: Firenze uguale Mutu, Timossi segue la Romania, da Bucarest a Costanza, in casa e in trasferta, nelle qualificazioni e agli Europei.

    Bucarest era appena entrata nell'Unione Europea, l'integrazione era più che un miraggio, ma la Nazionale già giocava da un pezzo gli Europei e anche questa era la forza della manifestazione internazionale che ho sempre amato di più. Era un viaggio alla scoperta di Paese vicini e misteriosi. Per l'Euro (calcistico) ho sempre avuto una passione. Il Mondiale è un'altra cosa, troppo dispersivo, meno politico e almeno per me meno curioso. In Svizzera e Austria (Euro 2008) diventai definitivamente romeno. Era la fine del Vecchio Est, il Muro di Berlino era caduto da quasi due decenni, ma l'apertura verso l'occidente sarà un processo molto più lungo. Quando atterrai per la prima volta a Bucarest, alla fine del 2006, ero piuttosto diffidente, non toglievo mai il chiavistello dalla porta della mia camera d'albergo, giravo come si ci addentra in una giungla e continuavo a ripetermi che non è vero, io sono aperto, democratico e sono anche stato comunista. Dunque? Dunque non è vero che i romeni sono “tutti ladri”. Infatti non è vero, ho amato e amo la Romania, Bucarest e i suoi viali, Costanza dei campanili e dei minareti, della tomba di Ovidio. E sono rimasto incantato dalla medievale Timisoara, città universitaria da dove partì la rivolta più violenta dopo la caduta del Muro, quella che portò all'esecuzione della famiglia Ceausescu, in piazza, davanti all'ambasciata Usa, ai piedi dell'Intercontinental, dove tutti i giornalisti alloggiavano e alloggiano, meglio di Casa Capsa, hotel art decò dentro la galleria che è l'unica, minuscola, porzione di centro storico risparmiata dall'implacabile dittatore comunista.

    La Romania è bella, lo dico come farebbe il senatore Razzi, nell'imitazione di Maurizio Crozza. E quando ero romeno ho tifato Romania, anche contro l'Italia e mi sono indignato quando nella sfida incrociata tra i miei due Paesi, Mutu sbagliò il rigore e un dipendente della Federazione italiana giuoco calcio, con la sua bella divisa federale e la sua faccia pulita, come reagì? Con sportività. Si alzo, fece il gesto dell'ombrello ed esclamò: “Tiè, zingaro di merda”. Italia a casa, comunque. Romania pure e io anche.

    C'è dell'altro: quattro anni prima, in Portogallo, scoprivo un altro popolo. No, non i portoghesi, quelli li conoscevo già, il lavoro e una lunga vacanza mi avevano già portato molte volte a Lisbona, Porto, Guimaraes, Coimbra e via discorrendo. A Lisbona, nel 2004, incontrai i bulgari. Sofia, come Bucarest, sarebbe ufficialmente entrata nell'Unione Europea solo due anni e mezzo dopo, 1° gennaio 2007. Però agli Europei, ovviamente, anche loro partecipavano già da un pezzo. E no, i bulgari non erano tutte spie, neppure fiancheggiatori dei Lupi Grigi, tantomeno equilibristi di qualche circo. Erano come noi, più curiosi, incantati da questa Europa di confine, volontariamente triste e polverosa, spazzata dal vento che viene dall'Oceano, terra di dittatori di terza classe, garofani e socialisti illuminati. I bulgari stavano nel girone C, con l'Italia, anche in questo caso tornammo tutti a casa al primo giro. A condannare l'Italia del Trap, di Vieri “più uomo di tutti voi” e di Cassano, fu anche il “biscotto” tra Svezia e Danimarca. Anche, ma non solo. Contro la Svezia si scoprì il genio di Ibra, gol di tacco, “scorpione volante”, all'incrocio sopra la testa di Vieri (ora fa il simpatico in tv, all'epoca comunicava con la stampa in uno slang misto di minacce e rutti). Contro la Bulgaria andò bene, ma non bastò: aprì uno dei tanti Petrov nazionali, pareggiò Perrotta, il 2-1 lo segnò Cassano, in pieno recupero. Prima della partita del don Afonso Henriques pranzammo in un ristorante di Guimaraes: io, il mio maestro indiscusso e amico Vittorio Allegri e una banda di tifosi bulgari. Uomini, donne, con baffi e senza. Erano magnifici, ci rivelarono la straordinaria classe di Berbatov e ci parlarono di un ragazzo (per loro) “prodigioso” che sarebbe poi sbarcato a Firenze. Si chiamava e si chiama Valeri Bojinov, per molti motivi non mantenne tutte le promesse della vigilia. In quell'Europeo al ritmo di fado tutti pensavano avrebbe vinto il Portogallo, vinse il fato e la spuntò la Grecia. Fu il momento più alto del modello ellenico 2.0, destinato a sbriciolarsi come le costruzioni di Calatrava inaugurate per i Giochi di Atene dello stesso anno. In quell'Eurpeo con mastro Vittorio andammo pure a trovare Sven Goran Eriksson. Lo svedese aveva allenato il Benfica, conosceva bene Lisbona e dintorni. Dodici anni fa era il ct dell'Inghilterra. “Vedrai dove è finito in ritiro”, profetizzò Allegri. Dove c'era della “gnocca” ? Esatto, vecchio Sven. Lo raccontammo pure ai bulgari. A loro, che amavano tutto. “No tutto, no bacalao”. In Portogallo mangiano più baccalà che a Genova. Forse è anche per questo che in quell'Europa ci sentivamo tutti un po' a casa.


    Ps. A San Gallo cantò Mutu. Non gli tagliarono la testa, ma non lo fecero andare a Roma

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