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  • San Siro, il vincolo di Sgarbi obbliga Inter e Milan a dire la verità sullo stadio

    San Siro, il vincolo di Sgarbi obbliga Inter e Milan a dire la verità sullo stadio

    • Gianni Visnadi
      Gianni Visnadi
    La polemica tra Matteo Salvini e Vittorio Sgarbi, rappresentanti dello stesso governo, è stucchevole quanto l’oggetto della loro discussione. Accapigliarsi intorno al progetto stadio attira simpatie a seconda di ciò che si dice e di quando lo si dice. Il sindaco Sala, per esempio, ha aspettato di essere rieletto per la seconda e ultima volta prima di dichiararsi favorevole all’abbattimento di San Siro. In campagna elettorale se ne era guardato bene, per timore di perdere consenso.

    In Lombardia fra un mese esatto (12 e 13 febbraio) si voterà per eleggere il nuovo Consiglio regionale. Salvini è il vincitore che peggio è uscito dalle elezioni nazionali di settembre: se la Lega, che esprime il presidente uscente Attilio Fontana, dovesse mai perdere una presidenza che è del centrodestra dal 1994, la sorte politica del suo segretario, già vacillante, potrebbe subire un brutto contraccolpo. Ecco perché Salvini sta intervenendo così frequentemente sulla questione stadio: accarezza il pelo ai tifosi, che sono poi soprattutto potenziali elettori. E farlo non gli costa nulla, perché i soldi non sono suoi.

    Il punto è che San Siro non è Sesto San Giovanni. I club vogliono San Siro, cioè Milano. Sesto è stata un’arma per fare pressioni a Sala, che però non ha più bisogno di pressioni. Lui ha già scelto e così il Consiglio Comunale, che dopo il dibattito pubblico ha chiesto variazioni al progetto (70 mila posti e la garanzia che i biglietti non aumenteranno, sic), che i club non saranno obbligati a recepire. Si aspetta la delibera della Giunta (che è con Sala per definizione di ruoli e quindi non ci saranno soprese), prevista entro il 21 gennaio. Nel frattempo però è spuntato il ministero della Cultura di cui Sgarbi è sottosegretario, a ricordare che dal 2024, San Siro sarà vincolato e quindi non abbattibile.

    Vista così, sembra una questione non aggirabile. Possono smuoverla la politica e gl’interessi economici. Sgarbi è vice ministro di un governo in cui Salvini è vice premier. In teoria giocano nella stessa squadra, ma qui si capisce che la vicenda è trasversale, se è vero che pro abbattimento c’è il sindaco milanese di centrosinistra.

    Di andare a Sesto, si parla dal 2014 e allora il progetto non era per uno stadio condiviso, ma tutto e solo del Milan. Era il progetto caro a Barbara Berlusconi, che aveva individuato proprio nell’area ex Falck, l’alternativa al Portello, poi repentinamente abbandonate entrambe per i costi e probabilmente perché Fininvest già sapeva che da lì a poco avrebbe ceduto il Milan. Già nel 2014, Sesto avrebbe aperto volentieri il suo Comune al nuovo stadio, talmente ovvio che non serve spiegare cosa significherebbe per un paese dell’hinterland, in termini di sviluppo, lavoro e fatturato sociale.

    Suning, Elliott prima e RedBird ora, fin qui non hanno pensato nemmeno per un giorno di andare a Sesto San Giovanni, anche se l’agiografia di Gerry Cardinale racconta di una sua visita a quei terreni, poche ore dopo la foto con i tifosi in piazza del Duomo. Ma adesso siamo oltre, con un vincolo che arriva da Roma e che se confermato obbligherà a cambiare programmi. E allora tutto sarà finalmente più chiaro: se lo stadio è necessario in quanto tale per generare nuovi ricavi, e arrivare a guardare negli occhi i grandi club stranieri, partirà l’operazione Sesto e magari il Milan avrà la forza e la volontà di costruirselo da solo. All’Inter resterebbe San Siro da ristrutturare, ma Suning oggi non può farlo, perché non ne ha la forza economica. Se invece lo stadio è una scusa per una colossale operazione immobiliare (una torre a uffici da 17 piani e un centro commerciale su 3 piani, da 88 mila metri quadrati, sarebbe il più grande d’Italia in un centro urbano; questo prevede l'attuale progetto) è probabile che la melina continui e che la colpa cada come sempre sulla burocrazia e la lentezza italiana. È il momento che chi ha le carte in mano, le cali sul tavolo.
    @GianniVisnadi
     

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