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  • Scamacca: 'Restare nello stesso posto non fa per me. Le società? Se non servi, ti lasciano per strada. E non sono un bad boy'

    Scamacca: 'Restare nello stesso posto non fa per me. Le società? Se non servi, ti lasciano per strada. E non sono un bad boy'

    Tornato al Sassuolo dopo il prestito al Genoa, nel mirino della Fiorentina per il dopo Vlahovic, Gianluca Scamacca è, come ogni estate, uomo mercato. E oggi il classe '99, attaccante dell'Italia Under 21, si racconta a la Gazzetta dello Sport: "Predestinato? A me questa definizione non è mai piaciuta. Dà l'idea di chi le cose le ha ottenute per grazia ricevuta e io invece me le sono sudate tutte, con il lavoro, la costanza, il sacrificio, le scelte anche difficili. Sono nato in un quartiere popolare, Fidene. Per me non è mai stato semplice, glielo assicuro". 

    LE ASPETTATIVE - "Non mi pesa. Anzi, mi stimolano. La scorsa stagione mi è servire per conoscere il campionato di A e capire cosa significa giocatore contro calciatori importanti. Le pressioni non mi spaventano. Voglio crescere e mostrare le mie qualità". 

    BAD BOY - "Per un periodo mi hanno appicciato addosso questa etichetta e non so perché. Ma a me sinceramente non è mai fregato molto di certi giudizi di chi neanche ti conosce. So chi sono e soprattutto lo sanno le persone con cui mi sono rapportato ogni giorno in questi anni: i miei compagni di squadra, i miei allenatori, i miei dirigenti. Chiedete pure a loro com'è Gianluca. Vi risponderanno e vi assicuro che non pago nessuno perché parli bene di me... Sono un ragazzo semplicissimo. Mi piacciono i tatuaggi è vero, che problema c'è? Non penso sia giusto giudicare un libro dalla copertina... La gente punta il dito in modo superficiale, io ho le spalle larghe e me ne frego, ma c'è chi invece ci soffre e non è giusto. Non sono un bad boy, mai stato, ma in campo mi piace farmi rispettare, quello sì. E non lo considero un difetto. Se vuoi arrivare a livelli importanti serve personalità. La metto sia quando devo rischiare una giocata, difendere un compagno o restituire un colpo ricevuto. In campo oltre alla tecnica devi avere gli attributi, altrimenti se capiti in mezzo a due come Bonucci e Chiellini la palla non la vedi mai". 

    I GIOVANI - "I club dovrebbero dare più spazio ai giovani italiani? Sì, l'ho sempre detto. Spesso le società investono sui giovani stranieri, ma l'erba del vicino non è sempre più verde. Abbiamo tanti talenti, ma bisogna dar loro fiducia, aiutarli. E' ovvio che un ragazzo possa sbagliare, ma è lì che devi insistere e dargli un'altra occasione, saperlo aspettare. A noi questa cultura manca, anche per questo io sono andato via a 16 anni. Molti non mi credono, ma scelsi da solo, nessuno mi forzò. Ho sempre pensato che in Italia ci fosse un limite di mentalità nel lanciare e valorizzare un giovane. Ero convinto che andando all'estero sarei cresciuto come ragazzo e come atleta. Sono stato anche un po' incosciente, perché quando sei in un altro Paese a volte è dura, ma io mi sono trovato bene. Fare nuove esperienze mi stimola. Mi piacciono i cambiamenti: li vivo come sfide che fanno crescere. Restare tutta una vita in uno stesso posto non fa per me". 

    LE BANDIERE - "Non esistono più? Inevitabile direi. Il calcio è cambiato: i Totti, i De Rossi e i Del Piero non ci saranno più. Ma chi cambia la squadra non vuol dire che non sia stato attaccato alla maglia o non l'abbia amata. Io sono certo che Donnarumma abbia amato il Milan e Lukaku si sia sentito un re all'Inter: andar via non significa necessariamente tradire. La carriera è breve e il nostro è anche un lavoro. Chiunque vuole vincere cose importanti, conquistare trofei o riconoscimenti, guadagnare. Avere delle ambizioni non è peccato, anzi. Tutti giudicano sempre i calciatori, ma le società non sono più quelle di un tempo: non esistono più i presidenti innamorati come Sensi, Moratti o Berlusconi. Oggi i club sono aziende, spesso di proprietà straniere o di fondi, per i quali il giocatore è un asset. Se non servi più, hai una difficoltà, ti lasciano per strada, arrivederci e grazie, senza farsi scrupoli. E il giocatore agisce anche di conseguenza e guarda i suoi interessi. Sin da quando sono un ragazzino mi sono sempre detto: ragiona sulle cose che vuoi fare, ma poi falle senza stare a pensare troppo a chi ti giudicherà. Oggi nell'era dei social l'insulto è libero. Per qualcuno sarai sempre un traditore, un coglione, un mercenario... Prima ti abitui a gestire queste cose e dunque le emozioni che ti suscitano e prima acquisti lucidità e freddezza per fare le scelte migliori. Tanto quelli che ti criticano se fossero al tuo posto probabilmente farebbero le stesse scelte tue...". 

    SUL PADRE - "Vorrei essere giudicato per quello che faccio in campo. Non c'entravo nulla con quella storia. I rapporti familiari possono essere molto difficili a volte, ma non voglio parlarne. Fa parte della sfera privata, chiedo solo che venga rispettata". 

    IL MONDIALE - "Calma... Se dicessi che non ci penso sarei bugiardo, ma io sono nell'Under 21. Un passo alla volta. Però se disputerò la stagione che ho in mente, l'occasione arriverà. Lavorerò e mi impegnerò più che posso e vedremo cosa accadrà". 

    L'ESULTANZA - "Non ne ho una fissa, non mi piace programmare le emozioni. Amo viverle, spontaneamente. Mi piacciono le cose vere. C'è chi piange, chi si butta a terra, chi urla. Ma è bello vedere cose naturali. Po se uno preferisce fare il teatrino è libero di farlo. Io so solo che quando segno mi sento in cima al mondo. In quel momento per me è il coronamento di tutti gli sforzi fatti. Dietro un gol c'è spesso molto più di quanto la genti pensi. E' una gioia che non si può descrivere. E me la voglio godere come viene". 

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