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  • Da Giampaolo a Sarri, quando il cambio di mentalità non porta risultati: servono pazienza e dirigenti 'alla Berlusconi'

    Da Giampaolo a Sarri, quando il cambio di mentalità non porta risultati: servono pazienza e dirigenti 'alla Berlusconi'

    • Alberto Polverosi
      Alberto Polverosi
    Il Milan di Giampaolo e il Torino di Giampaolo, la Juventus di Sarri, il Parma di Liverani e la Fiorentina di Prandelli. Cosa hanno in comune queste cinque squadre? Il cambio della testa, della mentalità, del tipo di gioco, hanno in comune un passaggio così impegnativo, da un allenatore all’altro, che i risultati hanno stentato e stentano ad arrivare. Al Giampaolo milanista e al Sarri juventino non è stato concesso il tempo necessario per imporre la nuova linea, il primo è stato licenziato dopo pochi mesi di lavoro, il secondo dopo una stagione intera nonostante uno scudetto vinto. Adesso sono nel pieno della ricerca di cambiamento lo stesso Giampaolo, Liverani e Prandelli.

    Giampaolo aveva ereditato il Milan da Gattuso, protagonista di un’ottima stagione conclusa col quinto posto e la qualificazione in Europa League, a cui la società aveva poi rinunciato per ragioni economiche. Rino aveva dato alla squadra una solida organizzazione, ma Giampaolo cercava altro, cercava il gioco con cui aveva conquistato Empoli e Sampdoria. C’erano stati subito dei problemi, una sorta di crisi di rigetto dei principi del nuovo tecnico. In mezzo a tali difficoltà, il Milan ha deciso di sostituirlo con Pioli e non si può proprio dire che il cambio sia stato negativo. Tutt’altro. Ma il punto, come vedremo, è un altro.

    Sarri doveva cambiare non la mentalità di una squadra, ma la storia di cinquant’anni di Juve. Lo avevano ingaggiato dopo la bruciante eliminazione dalla Champions per mano dell’Ajax, quando sul piano del gioco i bianconeri erano stati calpestati dai giovani e arrembanti olandesi. Ma quella Juve arrivava da otto anni di scudetti consecutivi, conquistati con pragmatismo e concretezza, le caratteristiche storiche della Vecchia Signora. Dopo un anno, uno scudetto e tante difficoltà di gioco, via Sarri e dentro il debuttante Pirlo.

    Giampaolo è tornato subito sulla scena col Torino, che era stato a lungo di Mazzarri e per un breve periodo di Longo. Anche in granata, l’ex allenatore del Milan si è messo alla ricerca del suo gioco, pur non avendo interpreti adatti (manca un regista vero, per esempio), e oggi il Toro è in zona-retrocessione.

    Liverani aveva portato il Lecce in A giocando un calcio offensivo e con lo stesso tipo di calcio è sceso subito in B. Il Parma lo ha preso perché voleva un gioco diverso da quello solido e concreto di D’Aversa. Ma anche in questo caso, nonostante il recente passaggio alla difesa a cinque, i risultati sono preoccupanti, come il gioco del resto. Infine Prandelli, che ha ereditato la Fiorentina da Iachini, licenziato da Commisso perché la squadra non piaceva e non faceva risultati. Al debutto, l’ex ct ha perso in casa col Benevento per un motivo chiaro: la Fiorentina non era più quella di Iachini e non era ancora quella di Prandelli.

    Il punto è questo: quando si cambia in modo così profondo, quando a una squadra impostata su difesa e contropiede si cerca di trasmettere un concetto opposto, ci vuole tempo, molto tempo. E ci vogliono società con dirigenti preparati che non perdono la pazienza dopo qualche passaggio a vuoto. Ci vuole il Milan di Berlusconi che, alla prima (e unica...) crisi di Sacchi entrò nello spogliatoio di Milanello e rivolgendosi a fior di campioni disse: “Questo signore è e sarà l’allenatore del Milan anche il prossimo anno, voi non lo so”. Salutò, se ne andò e il Milan prese a volare.

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