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  • Serie A: audience Sky e Mediaset, crollo del 12%

    Serie A: audience Sky e Mediaset, crollo del 12%

    • Raniero Mercuri
    Sembra passata un’eternità. E forse è vero. Poco più di un decennio ci separa da quello che eravamo. Noi, tutti. Voltarsi indietro e non riconoscersi più in quelle domeniche di stadi pieni, intrisi di festa e condivisione; come una foto ingiallita dal tempo e dai cambiamenti frenetici e repentini della modernità.
    Il triste trend va avanti ormai da diverse stagioni, peggiorando di anno in anno: la gente, allo stadio, non ci va più. Peggio, e forse oggi ancora più grave, calano nettamente anche i telespettatori. L’allarme è suonato forte e chiaro sia a Sky che a Mediaset: nelle prime 7 giornate, l’audience è calata del 12%. Avete capito bene. Non solo andiamo sempre meno allo stadio, ma non vediamo le partite neanche più in tv. Ci dedichiamo ad altro. E, chissà, forse facciamo bene.
    Inutile però piangersi addosso. La responsabilità dei cambiamenti di una società, in questo caso di uno sport, vengono decisi a volte anche da nostre scelte e comportamenti. Già, a volte. Perché il lettore potrebbe giustamente obiettare: cosa c’entro io con i gestori di questo calcio tutto business ed economia, arricchimento e clientelismo esasperato, che ormai da quasi quindici anni sta annientando le tradizioni popolari e quindi sociali legate a questo sport? Domanda lecita.
    A veder bene, l’unica risposta che potrei dare è che la tua (nostra) responsabilità caro lettore, è di non esser stati capaci di opporci a questo “nuovo calcio” quando ancora eravamo in tempo, quando gli usi e costumi domenicali e aggregativi erano ancora ben saldi e il tentativo di cambiare, di cambiarci, poteva ancora sembrare un’utopia.
    Invece è accaduto, con la nostra pressochè totale accettazione e rassegnazione. In molti casi ammaliati dalle luci accecanti di una modernità consumistica, che ci ha portato a diventare “clienti”, fruitori di un prodotto, e per questo pronti a goderci lo spettacolo televisivo e amorale di tutto questo circo; ridendo, dibattendo e discutendo animatamente, ma non rendendoci conto di essere diventati parte di uno sport vuoto, superficiale, come un reality dai finti abbracci e dalle gioie effimere.
    Discutiamo di stadi nuovi, moderni e, giustamente, accoglienti. Ma allo stesso tempo dimentichiamo che per decenni quegli stadi li riempivamo di passioni, di amori e di sofferenze talmente grandi che sono diventate parte di noi, perché le sentivamo nostre e ci rendevano partecipi del tutto. Lì, in prima persona, all’interno di impianti anche a quel tempo scomodi, spesso costretti sotto autentici temporali, stretti l’un l’altro tra ombrelli e abbracci, assiepati in piedi, seduti, in punta di piedi per riuscire a vedere almeno un pezzetto di campo tra mille teste. Era scomodo, si, però c’eravamo.
    Ecco perché, caro lettore, permettimi di dire che in fondo la colpa è anche un po’ nostra, che abbiamo accettato ogni cambiamento come fosse oro colato. Ipnotizzati dalle splendide immagini televisive, dai mille replay, dal contatto “social” (ma che di sociale ha davvero ben poco) con i club. Parliamo di brand, di bilanci, di fidejussioni. Forse sbaglio, ci siamo semplicemente rinnovati, aperti al nuovo modo di intendere lo sport: tanta immagine, poca sostanza.
    Chiudo con un ricordo, che suona oggi come un triste presagio. Stagione 1999/2000, in un Olimpico stracolmo si affrontano Roma e Inter. Poco prima del fischio d’inizio, appare uno striscione: “fermate l’industria calcio”. Forse era già troppo tardi.

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