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  • 'Simple Minds? No, c'è il Celtic: canto allo stadio'

    'Simple Minds? No, c'è il Celtic: canto allo stadio'

    C’è il grigio fumoso di Glasgow e c’è il blu accecante dello Ionio. E poi ancora il nero dell’Etna che domina spesso all’orizzonte. Ma tra le cinquanta e più sfumature della sua vita, due colori sopravvivono a ogni luogo: Jim Kerr, 53enne cantante dei Simple Minds, guarda il mondo in bianco e verde. Prima tifoso del Celtic, dopo rockstar planetaria da oltre 65 milioni di dischi venduti. E se è difficile restare un musicista di culto per 35 anni, non deve essere stato facile trapiantare in Sicilia un pezzo di Scozia: da tempo possiede un albergo a Taormina, città adottiva per parecchi mesi l’anno. Per lui avevano cambiato nome alla squadra di calcio e così dal 2002 al 2004 un Celtic biancoverde correva nei campi siciliani. Per una stagione giocava pure una punta scozzese, ma ora Kerr ha meno tempo per segnare: a marzo riparte il tour dei Simple Minds e domani c’è la sfida lanciata dai tanti juventini di Taormina.


    Allora, Kerr: come vede questo Celtic-Juve? E dove lo vede?
    «Juve favorita: sono lanciati e li accoglieremo con onore e rispetto. Sarò allo stadio con mio padre e mio figlio. Tre generazioni in sciarpa biancoverde a cantare You will never walk alone: il Celtic Park è magia, lì può succedere di tutto perché nessun nostro giocatore può avere paura».

    Ma quindi è lo stadio a rendervi speciali?
    «È speciale la gente dentro lo stadio. Io ho il Celtic nel sangue, provengo da una famiglia irlandese immigrata a Glasgow che sostiene la squadra dal 1888. Pensate che i miei due nipotini gemelli avevano la maglia del Celtic quando sono nati. La mia prima volta allo stadio è stata invece nel 1966 contro lo United di George Best: vincemmo 4-1, ma ero deluso perché potevamo farne 7».

    Era deluso anche il 7 novembre, quando il suo collega Rod Stewart piangeva?
    «No, col Barcellona è stato epico e tutti allo stadio eravamo commossi. Loro hanno fatto entrare dalla panchina Fabregas e Villa, noi Tony Watt, 18 anni, costo 25mila sterline. Ed è stato il nostro ragazzo a fare il 2-1: ecco la magia».

    Non solo Watt, ci guidi a questo nuovo Celtic.
    «Siamo schizofrenici: giochiamo bene in Champions e peggio in campionato. Attenti a Wanyama: ha un potenziale enorme. Poi apprezzo il capitano Commons e il portiere Forster, che davanti a Messi sembrava superman. E c’è Neil Lennon, un tecnico giovane, onesto e combattente: fa bene a dire che servirà lo spirito di Braveheart. Tra i "nostri" giocatori italiani, invece, non dimenticherò mai Di Canio: era "punk rock" come me da giovane».

    Dica la verità: le mancano i cugini protestanti Rangers?
    «Dopo il loro fallimento non è più la stessa cosa: abbiamo bisogno l’uno dell’altro per esistere. Ricordo che a un derby del 1982 portai Bono degli U2, che allora non seguiva il calcio. Per l’atmosfera allo stadio è rimasto, come dite voi italiani, a bocca aperta».

    E, invece, a cosa pensa quando sente la parola Juventus?
    «Bettega, Tardelli, Causio, Gentile, Platini, Conte, Baggio, Del Piero, Vialli, Nedved, anche se forse nessuno è grande come Zidane. Ero in tour, così ho visto poco la nuova Juve. Però ha campioni e uno stadio che vorrei vivere una notte. E mi piace Conte: lo stimavo come giocatore e sono orgoglioso di avere una sua maglia. Confesso, però, che il mio tesoro è la maglia di Armando Picchi. La indossava quando il Celtic vinse la Coppa Campioni ’67 contro l’Inter: resta il giorno più bello della mia vita».

    Ora passa belle giornate in Sicilia: l’isola le ha davvero cambiato la vita?
    «Amo tutta l’Italia, ma nel 1982 ero in Sicilia e ho pensato: "Questo è il posto più bello del mondo". Ho il mio albergo, ma pure amici (tanti juventini) e non dimentico le giornate genuine in giro col Celtic Taormina perché vedevo vita e gioia. In fondo, il calcio è come la musica: una forma di conoscenza, un modo per essere se stessi».


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