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  • Toromania: quarant'anni senza Ferrini, il Capitano dei capitani
Toromania: quarant'anni senza Ferrini, il Capitano dei capitani

Toromania: quarant'anni senza Ferrini, il Capitano dei capitani

  • Andrea Piva
Il Torino è vita: non si spiegherebbe altrimenti il perché nella sua storia si sia incrociato così tante volte con la morte. È successo il 4 maggio del 1949 a Superga, il 15 ottobre 1967 attraversando corso Re Umberto, l'8 novembre 1976 nel tragitto tra l'ospedale e Pino Torinese: quell'8 novembre di quaranta anni fa ad incontrare la Trista Mietitrice fu Giorgio Ferrini, il Capitano dei capitani.

Se c'è un giocatore, di quelli che in centodieci anni di storia granata hanno indossato la fascia da capitano, che può essere accostato a Valentino Mazzola, questo è proprio Ferrini. Non solo per le sue 566 partite giocate nel Torino (ancora oggi detiene il record di presenze in granata) ma perché è stato la personificazione del tremendismo. Quando le cose andavano male, e a volte capitava anche a Loro, Mazzola si rimboccava le maniche della sua maglia, dagli spalti Bolmida suonava la tromba e il Toro iniziava a caricare e, a quel punto, per gli avversari non c'era più nulla da fare. Ferrini no, non aveva un gesto particolare che potesse cambiare l'andamento una partita, ma con una parola sapeva infondere la carica alla propria squadra: in campo, poi, era il primo a dare tutto per la causa granata, il primo ad arrivare sul pallone e a strapparlo, con le buone o con le cattive, dai piedi degli avversari. Non si commetta però l'errore di immaginarlo come un medianaccio tutto grinta e poca qualità: alla sue eccelse doti di interditore sapeva anche unire una più che buona tecnica, come dimostrano le 52 reti messi a segno in carriera.
Giorgio Ferrini incarnava lo spirito Toro, in tutto e per tutto: nella grinta, nella passione, nella fierezza, nel saper affrontare il derby (a proposito di partite contro la Juventus, ha fatto storia il calcio nel sedere che rifilò a Sivori che lo stava continuando a provocare) e anche nella sfiga. Lasciò il calcio giocato al termine del campionato 1974/1975, dopo sedici anni in granata, senza essere mai riuscito a vincere uno scudetto (nel suo palmares ha due Coppe Italia e l'Europeo del '68 vinto con l'Italia): nel campionato successivo il Torino si laureò campione d'Italia per la settima volta nella sua storia. Ferrini era il vice allenatore di quella squadra e dalla panchina trasmise tutta la sua carica ai suoi ex compagni per ventinove partite e mezzo. Mezzo, perché all'ultima giornata di campionato, quella che consegnò il tricolore ai granata, all'intervallo decise di restare negli spogliatoi e di non sedersi in panchina accanto a Radice. Pulici scherzando (e con lui altri compagni) gli disse che lo avrebbe fatto entrare in campo per qualche minuto, per far sì che anche lui risultasse tra i giocatori che stavano per vincere lo scudetto. Ferrini, non essendo tesserato come calciatore, per evitare che i suoi amici e ex compagni commettessero qualche sciocchezza che il Toro avrebbe potuto pagare con una sconfitta a tavolino e quindi con la vittoria dello scudetto (la Juventus arrivò seconda con soli due punti in meno dei granata) preferì restare nella pancia del Comunale.

Dietro ai muscoli e alla grinta mostrata in campo, c'era infatti un uomo mite, amato da tutto e rispettato anche dagli avversari. Non è un caso che nella ultime ore di vita di Ferrini, al di fuori della camera di rianimazione nelle quale era, c'erano anche storici “nemici” di mille battaglie come Giovanni Trapattoni e Giampiero Boniperti. Pochi mesi dopo quello storico scudetto, Giorgio Ferrini se ne andò mentre un'ambulanza lo stava portando dall'ospedale alla sua casa di Pino Torinese: erano le 11.45 dell'8 novembre 1976.

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