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  • Dal Leicester non c'è nulla da imparare

    Dal Leicester non c'è nulla da imparare

    • Michele Dalai
    Santi, poeti, navigatori e tifosi del Leicester. Ora lo siamo tutti indiscriminatamente, compreso chi scrive. Il costume nazionale è una scienza esatta in casi come questo, che siano sogni o carri dei vincitori noi li inseguiamo senza porci troppo il problema della coerenza e poco importa se chi ora incensa Ranieri fino a qualche mese fa gli dava del perdente, ipocrita e piangina. Siamo stati tutti dei fanatici dello speciale quando Tomba danzava tra i pali (anche chi non aveva mai inforcato un paio di sci ma sdottorava come e più di Thoeni), abbiamo tutti soffiato nelle vele di Azzurra prima, del Moro di Venezia e di Luna Rossa poi, ci entusiasmiamo alla stessa velocità con cui dimentichiamo. Ma è giusto così, nella nostra spaventosa volubilità c’è del bello, perché per innamorarsi ci vuole cuore e al di là di ogni possibile massimalismo noi di cuore ne abbiamo.

    Lo stesso di Ranieri e dei suoi squinternati, un gruppo coeso di dirigenti, tecnici e giocatori che ha fatto qualcosa di irripetibile e che sarebbe drammaticamente sbagliato prendere come esempio. Come sogno sì, come esempio no perché sappiamo tutti che un modello del genere non è replicabile. Le variabili del caso, della forza di volontà e della saggezza del conduttore hanno influito enormemente e hanno sopperito a una diffusa mancanza di talento (poche sono le eccezioni), che aveva spinto i bookmaker a quotare la vittoria finale del Leicester 5000 a 1.

    In quel numero e nella moltiplicazione che ora è diventata possibile c’è l’enorme senso dell’impresa di Ranieri e dei suoi, quella follia che purtroppo in molti stanno rivendendo come standard replicabile.

    Non è così e in particolare non è così dalle nostre parti, dove per costruire il sublime servirebbe prima una grande seduta di autocoscienza e una colossale rivoluzione culturale.
    Nessuno di noi, nessuno tranne Ranieri, sa cosa sia veramente successo nello spogliatoio del Leicester e credo che mai lo sapremo. Possiamo fare delle ipotesi e la più accreditata è che ci sia stato un momento, magari a inizio stagione e dopo il primo filotto di vittorie, un momento in cui Claudio Ranieri ha avuto l’intuizione geniale che una banda di mestieranti come quella che aveva a disposizione avrebbe potuto tentare il miracolo.

    Perché un conto è dirlo e tutt’altra cosa è provarci per davvero, weekend dopo weekend, senza sentire la pressione. Probabilmente non se lo sono nemmeno detto, è stato qualcosa di magico e mai confessato, ma che un uomo di grande esperienza come Ranieri abbia capito che solo l’incoscienza dei suoi avrebbe potuto pesare quanto la grande consapevolezza dei campioni e che a quel punto la differenza l’avrebbe fatta la durata di quella magia, dell’incantesimo.
    Perché l’alano pensa di essere un bassotto finché non si guarda allo specchio e allora tutto sta nell’evitare che ne trovi uno.

    Incoscienza, saggezza e un grandissimo lavoro tattico gli ingredienti o almeno quelli che si intuiscono da qui.

    Poi il Leicester corre sempre come se non ci fosse un domani, ma quella è la spinta della fame e della rabbia dell’outsider, l’esasperazione della componente fisica del gioco in un modello calcistico in cui la fisicità è già elemento preponderante.

    Solo che il Leicester non è e non può essere un esempio concreto per le squadre italiane, a meno che non ci si voglia raccontare delle terribili frottole, o almeno non lo può essere nelle condizioni disperate e forse irreversibili del nostro calcio.
    Scriverlo così sembra crudele, ma basta mettere in fila i motivi per convenire che la quota della vittoria del foxies in Italia sarebbe stata 500000 a 1.

    Siamo un paese di complottisti da bar. Chi vince ha sicuramente i favori del palazzo, è aiutato dagli arbitri e comunque nasconde scheletri in armadi più o meno immaginari.
    Chi perde lo fa perché non ha i favori del palazzo, perché gli arbitri fischiano contro pregiudizialmente e perché nella convinzione di rappresentare il bene assoluto sa di non poter competere contro le forze del male.

    Nel mezzo, sballottato tra questa marea di puttanate auto assolutorie c’è il calcio, quello giocato.
    Un Leicester italiano?


    Forse il Verona di Bagnoli, che però metteva in campo un vice campione del mondo (Briegel), un portento come Elkjaer (che nella sua anarchia ricorda un po’ Vardy), e altri giocatori un po’ meno a fine corsa di quelli di Ranieri.

    Prendete il Sassuolo e immaginatelo in testa alla classifica alla decima giornata.
    L’allenatore forse direbbe in conferenza stampa che quei punti servono per la salvezza, che è il vero obiettivo stagionale.

    I giocatori recepirebbero l’informazione e ne farebbero un alibi.
    Poi forse arriverebbe il primo arbitraggio sbilenco e partirebbe il ritornello del palazzo e delle grandi squadre, del fatto che è inutile competere in un campionato che tanto la Juventus deve vincere e così via.

    Poi arriverebbero le prime crisi isteriche in campo, le espulsioni e le recriminazioni infinite, seguite da quella cosa bellissima che è di nuovo l’auto indulgenza (non siamo attrezzati per vincere, la panchina è corta, il terremoto e le cavallette…).
    Un finale già scritto in cui il primo carnefice di se stesso sarebbe proprio il Sassuolo (che qui è solo un esempio), vittima di un condizionamento ambientale che viene dalla sfiducia di tutti, conservativo e conservatore, resistente a qualunque scossa.
    Attenzione, molte delle giustificazioni sono puntuali, verissimo è che c’è chi investe molto per competere e chi con meno risorse si pone altri obiettivi, ma il non modello Leicester è di un altro mondo.

    Il tema è molto preciso, saper cogliere l’occasione quando il sistema mostra una falla e la si potrebbe sfruttare.

    Il Leicester vince perché Chelsea, Man Utd e City e Arsenal sbagliano tutto e il Tottenham non riesce ad arrivare in fondo in quella che era una vera, irripetibile occasione.
    A quel punto tocca crederci e provarci, serve Ranieri e serve un gruppo di giocatori che la lagna del palazzo e il blues degli arbitri non la conosce nemmeno (la squalifica di Vardy, la reazione della squadra, della società e del giocatore a quella che poteva essere una tragedia di fine stagione è stata esemplare in tal senso: fuori Vardy, dentro un Ulloa, tanto è il gruppo quel che conta)

    Il Leicester non è un modello perché i sogni non lo sono.
    Fughe, evasioni, deliri romantici, quello sì.

    Il Leicester non ha nulla da insegnare, nulla che non sia la semplice epifania del bello: a volte capita, quando meno te l’aspetti, quando non te l’aspetti proprio (come il pacato e intelligentissimo Ranieri, che a 64 anni domina l’esplosione di sentimenti contrastanti che deva avere dentro e riesce a godersi l’assurdo e la meraviglia di tutto ciò).
    In giro ci sono già migliaia di interpreti autentici del pensiero di Re Claudio, di motivatori da divano che usano il Leicester come esempio da imitare senza nemmeno rendersi conto del grottesco, della scemenza che è invitare qualcuno a fare come il Leicester.
    A fare cosa?
    A smettere di giocare come Morgan, aprire un negozio di tatuaggi, tornare sovrappeso e contro ogni logica vincere una Premier League?

    Il Leicester è bellissimo perché non è ripetibile, è una favola proprio perché rompe la realtà e la trasforma, è un pensiero splendido nelle giornate buie e forse sì, è l’invito a non mollare mai e a rincorrere i propri sogni.

    Ma non è un modello ripetibile e non c’è nulla da imparare.
    O sei il Leicester o non resta che volergli bene senza scimmiottarlo e accettare che, come cantava uno bravo davvero, non c’è niente da capire.

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