La Ferrari gliel’aveva solo prestata per un po’. Giusto il tempo per due sgasate e per individuarne i troppi difetti – il motore usurato, le gomme liscie, il cambio a pezzi, l’acqua nel serbatoio -. Poi, quando il ragazzo è andato a sbattere contro l’ultimo muro (l’Udinese), dispiaciuto gliel’ha tolta.

 

L’avventura interista del “predestinato” (al licenziamento) Andrea Stramaccioni finisce qui, un anno e poche settimane dopo la consegna del bolide. Eppure le coperture e le rassicurazioni non erano mancate. Perché il capo era stato puntualmente informato, sapeva tutto: in questi disgraziatissimi mesi i report erano stato precisi, circostanziati: l’elenco dei problemi e dei limiti dell’Inter il giovane pilota l’aveva completato. Sarebbe bastato cambiare qualche uomo, ristrutturare: più semplice tagliare una testa, quella del giovane.

 

Stramaccioni è stato accompagnato dalla diffidenza del mondo del calcio e dall’invidia di molti suoi colleghi, in particolare quelli che alla serie A alta non sono mai arrivati. Ha avuto nemici fuori e in casa, contato infortunati veri e presunti, e non ha retto: a trentasette anni e senza alcuna esperienza di Inter nessuno avrebbe potuto farcela.

Moratti ha ragione: l’Inter è una brutta bestia. E’ stata capace di far fuori campioni del mondo come Lippi, d’Europa come Benitez, d’Italia come Bianchi, e poi Simoni, Cùper, Tardelli, Leonardo, Lucescu e anche Mancini. Figuratevi un ragazzo condizionato dalla gratitudine.

 

Ora tocca a Mazzarri, cresciuto con Foti e Spinelli e maturato con de Laurentiis (tre bei soggetti); Mazzarri che non ha mai conosciuto l’esonero e che finalmente approda alla big del Nord. Se fallisce anche lui, meglio riportare la Ferrari in garage.

E non toccarla più.