Calciomercato.com

  • Zoff, 70 anni da n. 1:| 'Contadino diventato Nembo Kid'
Zoff, 70 anni da n. 1:| 'Contadino diventato Nembo Kid'

Zoff, 70 anni da n. 1:| 'Contadino diventato Nembo Kid'

I 70 anni di un Mito sono un momento speciale perché Dino Zoff ha rappresentato, e rappresenta ancora, l’icona del calcio italiano. Taciturno, ombroso, amletico: uno scrigno di ricordi, aneddoti, saggezza e, soprattutto, di vittorie che hanno costellato una carriera longeva, carismatica, inimitabile. Da consegnare alla storia sportiva.

Mister Zoff, da dove cominciamo?
«Da sessanta anni fa».
Pensavamo peggio...
«Veramente possiamo andare ancora più indietro nel tempo, perché avevo quattro-cinque anni quando cominciai a parare in cortile».
Quindi, un predestinato?

«E’ stata una vera e propria vocazione, i compagni tiravano e io cercavo di parare. Il ruolo mi piaceva, man mano il gioco diventò una cosa sempre più seria e concreta. E, siccome ero bravino, a quindici anni mi portarono alla Marianese, la squadra del mio paese».
Perché le è sempre piaciuto questo ruolo?
«Non sono mai stato né un artista, né un creativo, ho sempre preferito la solitudine».
Aveva già la statura giusta?
«Non proprio. Il presidente mi riteneva basso e, ogni quindici giorni, mi misurava, sperando che fossi cresciuto di altri centimetri. Effettuai un provino per l’Inter, fu Meazza a visionarmi, ma non mi presero. A farsi avanti, invece, fu l’Udinese. Così, a diciassette anni, venni tesserato dalla società friulana, facevo il pendolare con il capoluogo. Mi dividevo tra il lavoro di motorista e il calcio. Giocavo nel campionato De Martino, quello delle riserve. A diciott’anni, dopo l’esame di idoneità a Coverciano, divenni calciatore professionista a tutti gli effetti».
Cosa ricorda dell’esordio in serie A?
«Un vero disastro, incassai cinque reti. A Udine la situazione non era facile perché l’allenatore Eliani non mi vedeva, ogni settimana chiamava in prova un portiere. Solo il presidente Bruseschi mi stimava. Un giorno mi convocò e mi disse: ”Qui nessuno ti vuole. Seppure a malincuore, sono costretto a cederti però sono convinto che farai strada”. Ci rimasi male e passai al Mantova di Schnellinger».
Fu l’inizio della grande ascesa calcistica?
«Mantova ha rappresentato il trampolino. Nel 1967 ero praticamente del Milan».
Poi, cosa accadde?
«Avevo le valigie pronte, sapevo che il trasferimento era cosa fatta. All’ultimo momento, però, l’accordo saltò per una cifra molto esigua. Il Milan di Rocco acquistò Cudicini dal Brescia, dato da tutti in fase calante. Invece, passato in rossonero, giocò le migliori sei stagioni della vita, vincendo tutto. E io mi ritrovai al Napoli».
Non le andò tanto male.
«I cinque anni di Napoli furono magnifici, con l’esordio in Nazionale e l’affetto incredibile della gente. Praticamente mi costrinsero a salutare la Curva dietro la mia porta ogni volta che giocavamo al San Paolo. E, per una persona solitaria e schiva come me, questi gesti rappresentavano un’enorme forzatura al carattere».
Quando nacque l’appellativo di Nembo Kid?
«Dopo una partita contro l’Independiente nella quale parai anche l’impossibile, volando da un palo all’altro. Per i tifosi partenopei divenni un eroe e, quando il presidente Ferlaino, per motivi economici, dovette cedermi alla Juventus, a momenti scoppiò una rivoluzione».
Undici anni in bianconero, senza saltare un incontro.
«Le mie riserve, Piloni, Alessandrelli e Bodini, non erano molto felici della mia costanza. Giocavo anche con trentotto di febbre, non mollavo mai. Con Alessandrelli, in particolare, esisteva un rapporto di grande amicizia».
I rapporti con l’avvocato Agnelli?
«Stravedeva per me, sia come portiere, sia come allenatore. La sua telefonata arrivava puntuale, ogni mattina alle otto. Era un competente, conosceva i calciatori di tutto il mondo e, quando non sapeva tutto di qualcuno, si informava. Quando giocavamo in casa, nell’intervallo, scendeva negli spogliatoi a prendere un caffè. Mai un’interferenza tecnica o tattica, solo un incoraggiamento. Una presenza assolutamente discreta».
La parata più bella in carriera?
«All’Olimpico, all’ultima giornata di campionato, al primo anno di Juventus. Eravamo sull’uno a zero per la Roma, il tiro era di Spadoni: se fossimo andati ancora sotto non saremmo riusciti a rimontare e non avremmo vinto lo scudetto».
E quella contro il Brasile ai Mondiale 1982?
«Quella su Oscar è stata la più famosa e la più importante, non la più difficile».
Il gol che mai avrebbe voluto subire?
«Quello storico di Magath».
E la partita che mai avrebbe voluto giocare?
«La finale della Coppacampioni ad Atene, contro l’Amburgo. La Juve contava otto-nove nazionali, oltre a Platini e Boniek. Sembrava tutto scontato, facile, scritto, invece non riuscimmo a giocare. Una disfatta».
Ai Mondiali del 1978, in Argentina, venne preso di mira dalla critica, per alcuni gol subiti da lontano, contro Olanda e Brasile.
«Scrissero pure che ero diventato cieco. Anch’io potevo sbagliare, per fortuna Bearzot mi rinnovò la fiducia e, ai Mondiali di Spagna, arrivò il titolo».
Che reazione aveva quando commetteva degli errori?
«Non riguardavo le partite perché ci trovavo sempre qualcosa che avrei potuto fare meglio. Ero meticoloso, perfezionista, maniacale, il primo critico di me stesso. In questo avevo imparato da mio padre. Una volta, commentando insieme una rete subìta a Napoli, su tiro da lontano che non mi aspettavo, mi zittì così: “Non te l’aspettavi? Ma fai il portiere, non il farmacista...»
Qual è il più forte calciatore con cui ha giocato?
«Ne voglio citare tre: Platini, Altafini e Sivori».
Quello a cui era più legato?
«Gaetano Scirea, ci bastava uno sguardo per capirci».
Ricorda il calciatore che l’ha più delusa?
«Sì, Capocchiano».
L’avversario più bravo in assoluto?
«Johan Cruyff, campione e inimitabile condottiero».
Il più temuto?
«Paolino Pulici. Giocava davvero bene solo i derby perché, con la spinta del pubblico, si esaltava, si trasformava. Diventava immarcabile, una furia, mi faceva sempre gol».
L’allenatore che ricorda con più affetto?
«Dico Pesaola, Bearzot e Trapattoni».
Quello che mai avrebbe voluto avere?
«Eliani».
Ci racconti della storica partita a scopone sull’aereo, di ritorno dalla Spagna con la Coppa del Mondo vinta.
«Io e il Presidente Pertini, contro Causio e Bearzot».
Chi la vinse?
«Bearzot e Causio. E Pertini incolpò me di aver commesso un errore. Ma, dopo un mese, telefonò scusandosi e ammettendo che era stato lui a sbagliare. Oggi quella partita avrebbe riscosso un successo mediatico mondiale».
Il passaggio sulla panchina è stato semplice?
«Non ho incontrato problemi, mi sono tolto belle soddisfazioni: Olimpica, Juventus, Lazio, Nazionale».
Chi sceglie tra i tanti calciatori che ha allenato?«Potenzialmente Gascoigne, purtroppo non aveva la testa. Dopo l’infortunio con Nesta rifiutò il preparatore nelle vacanze e, quando tornò, feci fatica a riconoscerlo: aveva dieci chili in più. Scelgo Signori».
Il più grande rimpianto da tecnico?
«La rete di Dalmat a tempo scaduto, a Bari contro l’Inter quando allenavo la Lazio. Senza quel pareggio avremmo potuto contendere lo scudetto alla Roma».
Veniamo a Zoff ct dell’Italia.
«Una bella avventura, anche se chiusa polemicamente».
In azzurro ha guidato Totti, Baggio, Del Piero: chi sceglie?
«Francesco Totti, che ho fatto esordire in Nazionale. Un fenomeno, di tecnica e potenza. Gli rimprovero solo di non aver fatto di più a livello internazionale, perché aveva tutti i mezzi per lasciare tracce ancora più importanti».
Cosa pensò quando fece il cucchiaio contro gli olandesi?
«Nulla di particolare, Francesco era bravo dal dischetto, non ho mai temuto che sbagliasse».
Le hanno rimproverato di aver mal gestito la finale con la Francia, agli Europei del 2000. Se avesse effettuato un’altra sostituzione...
«Subimmo il gol del pari su rinvio del portiere, non credo che una sostituzione avrebbe cambiato la storia. Mi ero lamentato con l’arbitro, Garcia Aranda, che conoscevo, dei quattro minuti di recupero. In semifinale avevamo avuto fortuna, in finale andò tutto storto. Non si può avere tutto dalla vita».
Perché lasciò bruscamente la Nazionale?
«Per le accuse di Berlusconi che ferirono la mia persona, non le potevo accettare. Ma pochi furono scontenti della mia decisione di lasciare la panchina azzurra».
E Zoff presidente?
«La nomina di Cragnotti mi sembrò una bocciatura come allenatore. Ad ogni modo è stata una esperienza importante anche questa, che ha completato la mia vita calcistica. Da presidente sono tornato due volte in panchina ad aiutare la Lazio, con ottimi risultati».
Non è uscito troppo presto dal giro?
«Forse, non sono mai stato bravo nelle pubbliche relazioni. E questo, per un personaggio sportivo, è un difetto».
Che differenze trova tra il suo calcio e quello odierno?
«Magari oggi si cura più l’aspetto fisico e lo spettacolo, a dispetto della tecnica che conta meno. I balletti dopo i gol, i modi di festeggiare un successo e di commentarlo».
Oltre al calcio, quale altra passione ha coltivato?
«Mi sono sempre piaciuti i motori e le auto».
Perché, dopo tanto girare, ha scelto di fermarsi a Roma?
«Mi sono subito trovato bene. Da buon friulano torno spesso nella mia regione. Però la vita ormai è in questa città».
Possiamo considerare Zoff più bravo o più fortunato?
«Entrambe le cose, perché la vita mi ha dato tantissimo e ho potuto fare la professione che mi piaceva e sognavo».
Ha mai pensato di entrare in politica?
«Me l’hanno chiesto diverse volte, non fa per me».
Come trascorre il tempo il settantenne Zoff?
«Golf, tennis, piscina e famiglia».
Ma allo stadio proprio non va più?
«No, preferisco guardare le partite in televisione e fare il nonno di due nipotini. Sono un contadino e le stagioni della vita devono rispecchiare quelle della natura». Allora, tanti auguri Super Dino.


Altre Notizie