Calciomercato.com

  • 8 marzo, mimose e calcio: sveglia, Italia!

    8 marzo, mimose e calcio: sveglia, Italia!

    • Marco Bernardini
    Che nessuno  rida. Anche io ho giocato a pallone. Tanti chili fa e una fabbrica di sigarette in meno. Sono stati gli unici momenti entusiasmanti di una carriera scolastica tribolata e ribelle dai Salesiani. Medie e ginnasio come una corsa a ostacoli. Matematica e greco quelli alti, con il sovraprezzo di due Messe al giorno più la benedizione vespertina. Poi uno si chiede perché è diventato ateo! Benedetto il pomeriggio, però. Due ore di calcio, prima del compito in classe. Sognavo di essere Sivori e tenevo le calze arrotolate. Non bastava, ovviamente. Ero, come dire, inaffidabile e umorale. Un giorno segnavo due gol. Quello dopo non vedevo palla. Al liceo finisco nel bel mezzo del Sessantotto. Diserto il campo di calcio per la piazza. Sogno di essere il Comandante Che Guevara. Ma la Juve non l’abbandono e, la domenica, sono al Comunale con l’eskimo. Poi arriva il lavoro. Mogli, figli. Addio sogni di gloria calcistico-rivoluzionaria.

    Si chiama Carolina Morace. E’ sufficientemente famosa e anche piuttosto bella da spingermi a fare il fico. A Ischia, un’estate.  Personaggi dello spettacolo, calciatori e giornalisti su invito per una “tre giorni” organizzata a scopo benefico dal Comune. Puntuale come un cucù svizzero la canonica sfida tra rappresentanti della stampa e le ragazze della nazionale femminile. “Buoni, quella lì la prendo io”, dico ai colleghi indicando Carolina. Reggo quaranta minuti, poi mi devono portare via a braccia, sfinito e sconsolato, tra le pernacchie della gente e gli accidenti dei compagni. Mi ha fatto anche un  tunnel, mi ha fatto…

    Mi ritorna in mente, Carolina, oggi che è l’otto marzo. Un giorno dell’anno particolare in cui ciascun maschietto dovrebbe  regalare almeno un mazzetto di mimosa alla sua compagna o a un’amica. Una formalità, certamente, anche un poco ipocrita se non sostenuta dalla convinzione che dietro quel gesto di galanteria vi è la consapevolezza di un rapporto sul serio paritario. In Italia non è stato semplice far passare il concetto di eguaglianza  tra uomini e l’altra metà del cielo. Per certi versi resistono ancora frammenti di queste arcaiche e stucchevoli barriere. Negli Stati Uniti le prime suffragette scesero per le vie di Chicago nel 1909. Da noi, anche se l’Unione Donne Italiane nasce alla fine della seconda guerra mondiale, soltanto nel 1972 si svolge in Campo dei Fiori a Roma la prima manifestazione femminista con tanto di cariche da parte della polizia. Non è dunque inimmaginabile che, come è plausibile  avvenga, il popolo americano possa aprire le porte della Casa Bianca al primo presidente donna della storia. HiIlary Clinton, già ex first lady, dopo il nero Obama.

    E non è certamente un caso se, sempre gli Usa, il gioco del calcio coniugato al femminile possiede una valenza planetaria da record alla quale fanno seguito il Giappone e, più staccati, i Paesi del nord Europa. Il “soccer rosa”, insomma, non ha nulla da invidiare ad altre discipline tradizionali e persino sacre per gli americani come il baseball, il basket o il super bowl. Stadi pieni e sponsor di assoluto prestigio per le ragazze del pallone. Tant’è, si chiama Alex Morgan e gioca nella nazionale Usa la calciatrice più pagata del momento in virtù di un contratto da 450 mila dollari netti a stagione escluse le competenze pubblicitarie. La seguono, in quanto a danè, la brasiliana Marta Vieira (400 mila dollari) la tedesca Michaela Boneki (100 mila dollari) e la svedese Milla Fischer (80mila dollari). Cifre che non hanno nulla a che vedere con quelle dispensate dai conducenti della macchina calcistica maschile, ma che certamente suonano in maniera perlomeno strana alle ragazze di casa nostra tipo la Panico, la Cappella, la Di Camillo e la Gabbiadini sorella di Manolo il giocatore del Napoli.

    Ma perché il calcio femminile, in Italia, non riesce a decollare per trovare quegli spazi economico-finanziari e di visibilità popolare che pure ha dimostrato di saper meritare? La risposta, principalmente, si trova tra le pieghe di un fatto culturale ben preciso e abbastanza simile a quello che, per una vita, ha impedito alle donne di mettersi sul serio in gioco ai tavoli dove le regole, le tattiche e le strategie venivano (e vengono ancora) stabilite esclusivamente dai maschi. Eppure l’onda rosa del pallone continua a crescere.

    Antonio Cabrini che della nazionale femminile è il cittì oramai consolidato non ha dubbi in proposito: “Intanto debbo dire che in questi anni ho imparato molto sulla condizione sportiva e mentale delle calciatrici. Rispetto ai loro colleghi maschi, le ragazze usano molto di più il cervello e in quanto ad  applicazione e senso del dovere sono molto più serie. Il movimento femminile è pronto al salto di qualità e anche a quello di quantità. Non dipende più da noi, a questo punto, ma dalle scelte politiche di coloro che ci governato. Nel caso nostro la Lega Dilettanti la quale non può più ignorare che il calcio femminile  italiano è diventato maggiorenne al pari di quelli di nazioni culturalmente più avanzate della nostra. A questo punto non basta più chiedere attenzione, ma occorre forzare il sistema e imporre un nuovo corso a tutte le società di calcio tradizionali. Ciascuna di esse dovrebbe essere obbligata a possedere e a gestire almeno una squadra a testa formata da donne. Anzi da ragazzine le quali, crescendo, potranno misurarsi alla pari con quelle di altri Paesi. Per  il momento soltanto il Friuli e le Venezie si stanno muovendo in tal senso. Anche la Fiorentina ha inaugurato il settore femminile. Il problema è al Sud dove pregiudizi e maschilismo sopravvivono a dispetto della necessità di modernizzazione culturale”.
     

    Altre Notizie