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    Addio a Bertolucci, mito del Novecento

    Addio a Bertolucci, mito del Novecento

    • Marco Bernardini
    Da Casarola di Parma, dove era nato settantasette anni fa, alla più alta vetta del mondo culturale e artistico. Ieri notte sulle note di un ultimo tango se ne è andato danzando con la Signora in nero. La scomparsa di Bernardo Bertolucci, uno fra i più celebri e acclamati registi del cinema internazionale, crea un vuoto epocale nel panorama dell’intellighenzia autentica che ha animato il secolo passato e una parte di quello attuale.

    Sicuramente uno degli ultimi maestri, insieme con Franco Zeffirelli, il quale, più anziano di lui, lotta come un leone per sopravvivere, merita uno spazio di assoluto prestigio nel Pantheon di coloro che hanno dedicato la loro intera esistenza per la crescita e per l’acculturazione dell’intera società globale. Il cinema, quello d’autore ma comprensibile e fruibile per tutti, è stato lo strumento usato da Bertolucci fin dal giorno in cui, lui che avrebbe desiderato seguire le orme del padre Attilio poeta, non incontrò Pier Paolo Pasolini.

    Si sedette sulla “panchina” come “secondo” di quel genio friulano e apprese la tecnica della regia sul set di “Accattone”. Un sodalizio artistico che durò molti anni fino a quando Bernardo Bertolucci decise che era ormai il tempo di volare da solo con le proprie ali. Erano i tempi del cinema esistenzialista e anche un poco criptico come quello realizzato da Michelangelo Antonioni. Un genere che, pur amandolo, non era esattamente nelle corde del regista emiliano, il quale mostrava una chiara propensione al racconto dove al centro ci fosse l’uomo con tutti i suoi dubbi e le sue contraddizioni seppur calato in un contesto sociale di assoluta attualità.

    Di qui, nel 1970, la sua prima opera originale in quanto a pensiero e anche sul piano dell’immagine. “Il conformista”, con Jean-Louis Trintignant, il quale permise a Bertolucci di abbattere il muro che lo divideva dal resto del mondo. Due anni dopo lo “scandaloso” e trasgressivo “Ultimo tango a Parigi”, dove un inedito e dolente Marlon Brando costringe la giovane Maria Schneider ad un rapporto sessuale giudicato contro natura, tanto che il film provocherà un pandemonio a livello di censura e lo stesso regista verrà condannato e privato dei diritti civili per quattro anni. Eppure non si trattava di una provocazione e neppure di un inchino ruffiano alla morbosità gratuita. Semplicemente il manifesto di una società tormentata che trova il proprio riscatto nel sesso. In compenso si arricchirono i commercianti che vendevano il famoso cappotto in cammello indossato da Brando. Oggi, dopo la sdoganamento, “L’ultimo tango” è considerato come un capolavoro di tutti i tempi.

    Quattro anni di attesa e poi “il film dei film”. Novecento, un’opera mastodontica tanto che la produzione fu costretta a dividerla in tre parti nella quale si narrava la società contadina emiliana dai primi mesi di quel secolo irripetibile sino alla Seconda guerra mondiale. Per la locandina ufficiale venne presa a prestito la celebre opera pittorica “Il quarto stato” del maestro Pellizza da Volpedo. Una “chicca” indimenticabile sulla cima di un capolavoro eterno.

    Infine, intervallato da altre opere diciamo così “minori”, nel 1987 l’acuto tenorile che avrebbe fatto il giro del mondo, “L’ultimo imperatore”, un film magico e tenero e dolente e spettacolare, che venne premiato con nove Oscar. Anche quello per la regia, che consentì a Bertolucci di essere ancora oggi il primo e unico italiano nella storia del cinema ad aver ricevuto il massimo dei riconoscimenti. Seguirono ancora altri lavori di grande spessore come “Piccolo Buddha”, “Il tè nel deserto”, “Io ballo da sola” e infine “The Dreamers” con il quale Bertolucci volle tornare un poco alle sue origini socio-politiche. Poi "Io e te" (2012), e poi più nulla con il maestro costretto dalla malattia su una sedia a rotelle.

    E a chi gli faceva visita e gli chiedeva se lui fosse ateo rispondeva sorridendo: “Assolutamente sì, grazie a Dio”. 

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