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  • Così, 10 anni fa, vinsi il 'mio' Mondiale

    Così, 10 anni fa, vinsi il 'mio' Mondiale

    • Marco Bernardini
    Ho visto cose. Nascoste dietro un’impresa che l’Italia di Lippi seppe portare a termine con rabbia per poter dare un ceffone sul viso di un calcio italiano deformato e reso mostruoso dalla truffa e dall’inganno perseguiti da coloro che si sentivano intoccabili. Dieci anni fa quando a Berlino il cielo si tinse improvvisamente di azzurro e dall’Olympiastadion della metropoli tedesca si alzò come un uragano il “poppoppoppo” per fare il giro del pianeta Terra. L’ultimo Mondiale. Il “mio” ultimo capitolo mondiale di un lungo romanzo a puntate che era iniziato nell’Argentina dei generali nazi-fascisti e che andava a concludersi in quel luogo dove, anni prima, avevo assistito in diretta all’abbattimento del Muro della Vergogna umana.

    Si dice che l’ultimo successo sia sempre il più bello. Si tratta più che altro di una convenzione. Per me no. L’ho archiviato insieme con le cose più preziose che mi è piaciuto consegnare alla memoria perché le difendesse fino a renderle eterne. Certamente il godimento provato in Spagna, nell’82, rappresentò lo zenit di un completamento passional-professionale davvero speciale. Ma allora si trattò di una gigantesca “fiesta” collettiva da spartire tra tutti con una fettina a testa. Quello vissuto in Germania, nel 2006, è invece un evento che ho la presunzione di sentire per certi versi mio e soltanto mio. La nazionale italiana di Lippi e dei suoi ragazzi, alcuni improbabili come Grosso, vista al pari di un elegante contenitore dentro il quale si trova di tutto e di più in quanto a emozioni di ogni tipo che vanno dal tragico al comico e dal malinconico al buffo. Insomma, parallelamente allo scorrere delle partite che ci portarono alla finale con la Francia, ho visto cose. Mi piace potervele raccontare, sperando di non annoiarvi.

    Mica ci volevo andare in Germania. Alla stanchezza fisica stratificata sopra una vita con la valigia in mano si era aggiunto un sottile ma persistente stato di nausea professionale provocato un poco dal fastidio per il solito trantran, senza più vere sorprese e molto dall’esplosione di Calciopoli i cui effetti devastanti, scollinando il mestiere, mortificavano la mia passione. Lo dissi a Giancarlo Padovan e a Gianfranco Teotino, direttore e vice di Tuttosport, che non la presero benissimo ma neppure potevano obbligarmi a fare una cosa controvoglia. Programmo le vacanze. A una settimana dal via del Mondiale, Alessandro Bocci comunica che lascerà subito il nostro giornale per trasferirsi al Corriere della Sera. E’ allarme rosso. Vengo precettato, senza se e senza ma. Due giorni dopo, prima di tutti gli altri colleghi e della stesa Nazionale, mi ritrovo a Dusseldorf. Sarà quella città la mia base di partenza e di ritorno per raggiungere il vicino ritiro azzurro a Duisburg e le tutte molto lontane sedi delle partite che l’Italia dovrà giocare in Germania. 

    Seguire un Mondiale professionalmente è gratificante, ma fisicamente una fatica da tritacarne. Figurarsi per uno che, come me, si porta sopra le spalle un sacco zeppo di eventi simili già vissuti e rivissuti insieme con coppe, coppette, Olimpiadi e manifestazioni assortite. Non ho ancora il passo da pensionato, ma quello della pre-pensione sì, con tanto di dolori alla schiena e digestioni notturne sempre più problematiche. Gli altri inviati della mia generazione, da Gianni Mura a Emanuela Audisio e al povero amico Marco Ansaldo che non c’è più, se ne stanno beati in sala stampa a Berlino, salvo muoversi (in aereo) per le partite. Tuttosport non può permettersi certi lussi. In un mese macinerò tanti di quei chilometri da aver l’impressione di aver fatto il giro del mondo in automobile di giorno, di notte e alle prime luci dell’alba. Fortuna che non guido io. La “carovana”, della quale fanno parte Bonetto e Barillà e Forte, è guidata da Vittorio Oreggia già allora “direttore in pectore” come il giocatore-allenatore in campo. 

    Era arrivato a “Tuttosport” che era un ragazzino. Ci conosciamo bene. Non c’è bisogno di farla tanto lunga. Quando si accorge che, la sera, sono allo sfinimento mi fa: “Domani mattina dormi, al campo andiamo noi per la conferenza stampa”. Gliene sono grato. Tiro il fiato è un poco recupero. In quanto alla dieta, ho trovato un ristorante nel centro di Dusseldorf dove il proprietario, italiano emigrato, mi coccola con gli spaghetti al pomodoro evitandomi di andarmi a sfondare di wuster e birra nelle varie ghastaus.

    Ogni giorno ne capita una. Da Torino mi chiedono un parere di Platini. Non lo trovo e, a sera, mi invento una dichiarazione talmente banale (tipo di che colore è il cavallo bianco di Napoleone) che dovrebbe lasciare il tempo che trova. Era già accaduto altre volte, a Torino. Col cavolo. Il giorno dopo mi chiama al telefono e mi scanna: “Io sono un politico adesso, non pemetterti mai più…”. E mette giù. Ma  che si faccia fottere anche “le Roi”, se è andato via di testa. In sala stampa una mattina arrivano Albertini e Pessotto. Baci e abbracci. Il Pesso sembra in forma e di ottimo umore. Quando, qualche giorno dopo, arriva la notizia che si è buttato dal tetto della sede della Juventus quell’incontro diventa un incubo. 

    Nei rari ritagli di tempo visito Duisburg. Nulla di che. Un paesone dove tutti parlano italiano. Mangio una pizza nel locale dove, qualche mese dopo, scoppiò l’inferno mafioso e camorrista a colpi di pistolettate. Metto tutto in conto. Più si va avanti e più la tensione cresce tra i media in guerra aperta tra di loro nella caccia alla notizia “esclusiva” che non arriverà mai, perché con le telecamere che inseguono i protagonisti anche quando vanno a pisciare è impossibile sbattere nello scoop. In compenso, a proposito di sbattere contro qualcosa, ci tengo a ribadire che quello fu il mio più bel Mondiale di tutta la mia carriera anche perché ne uscii vivo. Anzi, ne uscimmo. Io e il collega Antonio Barillà, alle due del mattino, nell’autostrada Gelsenkirchen-Dusseldorf. All’una di notte abbiamo finito di trasmettere i pezzi. Siamo cinque stracci sudati e affamati. Gli ultimi hambuger di McDonald sono nostri. Sarebbe saggio andare a dormire. Non se ne parla. La mattina c’è la conferenza stampa nel ritiro azzurro. Davanti a noi diversi chilometri da percorrere. Pronti via, io in macchina con Antonio. Si entra in autostrada. Ma cos’è quel muro di luci che ci sta davanti e che si avvicina sempre più? Lo capiamo entrambi, ma non riusciamo a dire niente. Io penso a mia nonna Caterina che è il mio angelo custode. Antonio, con il volante, fa una cosa che manco Houdini. La nostra macchina fa un testacoda da film e si ferma accanto al guard rail proprio mentre una fila di Tir ci sfiora. Vivi per miracolo. Eravano entrati in autostrada dalla parte sbagliata. Contromano. Quando ci sentiamo, ancora adesso, Antonio e io ricordiamo e ci viene da tremare.

    Personalmente, invece, mi scappa da ridere quando ripenso a Marco Bonetto che prima di una partita ad Amburgo parcheggia la macchina in una viuzza senza prendere nota del nome e della zona. A fine gara, tutti regolarmente suonati dalla fatica, torniamo al parcheggio regolare. Lui no. Soltanto che ha completamente scordato di dove si possa trovare la sua automobile. Noi andiamo a cena. Voi immaginate un tipo che in piena notte si aggira per le vie della città con un satellitare invano azionato sopra la testa. Dovette far ricorso alla “Polizei” per ritrovare l’auto. Capita anche questo. E io che non ci sarei dovuto (né voluto) essere oggi posso (e voglio) raccontare del mio Mondiale vinto. Quello dive arrivai per primo e venni via quando tutti erano già a casa perché dovetti fermarmi per raccontare che colore aveva Berlino il giorno dopo il trionfo azzurro.

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