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Occhio Napoli: giocarsi lo scudetto con la Juve al fotofinish vuol dire perderlo

Occhio Napoli: giocarsi lo scudetto con la Juve al fotofinish vuol dire perderlo

  • Marco Bernardini


Il nome di Mario Cipollini, campione del ciclismo italiano ed ex cognato di Landucci il prezioso vive di Allegri, figura con merito negli annali dei record in virtù delle tappe da lui vinte allo sprint. Indimenticabili i suoi successi in volata che, puntualmente, si concludevano con il classico e decisivo colpo di reni che gli consentiva di salire sul podio per ricevere il bacio della miss e l’applauso del pubblico. Un giorno, dopo una premiazione, gli chiesi quale fosse il segreto che gli permetteva di non avere praticamente avversari sotto il traguardo. Rispose sorridendo: “Io metto la forza e la potenza della gambe, ma in realtà il vero problema è psicologico. Non mio, però, semmai degli avversari i quali ormai si sono convinti che vedermi al loro fianco un attimo prima dello sprint per loro significhi venir sconfitti. Forse non è per tutti così, ma per la maggioranza sì”.

Una teoria psicanalitica che è possibile trasferire al calcio e a quei campionati vissuti sino all’ultimo colpo di coda tra due pretendenti allo scudetto e specialmente quando uno dei contendenti veste bianconero e si chiama Juventus. E’ proprio ciò che sta accadendo nel corso di questa stagione con il testa a testa tra la formazione di Sarri e quella di Allegri le quali sembrano destinate, salvo ribaltoni di portata eccezionale, a risolvere la pratica del tricolore con il più classico degli sprint. Un arrivo in fotofinish quanto mai rischioso per il Napoli perlomeno stando alla storia del calcio italiano e a quella degli scudetti vinto all’ultima giornata in maniera più o meno rocambolesca.

La Juventus è maestra di eventi così clamorosi. Li ho vissuti come semplice tifoso, da ragazzo, e li ho raccontati come inviato durante la mia professione. Ogni volta un’emozione diversa, ogni volta una storia differente. Sempre lo stesso finale. Con la Juve campione, non senza code velenose e polemiche, ma sempre con pieno merito che talvolta combaciava con gli altrui demeriti.

A cominciare, per quel che mi riguarda, dall’ormai lontanissimo anno 1967 quando al Comunale di Torino la Juventus ospitava la Lazio mentre l’Inter era impegnata a Mantova. I bianconeri erano sotto di un punto in classifica. L’Inter doveva fare i conti con un avversario che aveva più nulla da vincere o da perdere mentre la squadra romana sarebbe stata obbligata almeno a pareggiare per evitare la retrocessione. Tutta una serie di motivi, insomma, che spingevano ad andare allo stadio per puro dovere di firma senza alcuna illusione. La Juve era quella di Heriberto Herrera, il mister che aveva osato sfidare l’intoccabile Sivori e che lo aveva spinto verso Napoli. Insomma, poco amore ma grande rispetto per i colori. Il “miracolo” nel secondo tempo. Non esistevano i telefonini e “Tutto il calcio minuto per minuto” trasmetteva una sola partita per evitare possibili influenze nei due campi nevralgici. Ad un tratto dall’altra parte dei distinti centrali, dove mi trovavo con il mio bandierone, vidi saltare e gesticolare il pubblico delle tribune che stavano a fianco del settore stampa. Stava accadendo l’impossibile. Anche i giocatori in campo si fermarono per un istante. Heriberto, davanti alla panchina, sembrava posseduto. Su “papera” di Sarti il Mantova aveva segnato. La Juve giustiziò la Lazio con due reti. Andai a festeggiare in pizzeria dove trovai Zigoni che raccontava: “Ancora non ci credo adesso. Il merito comunque è tutto del mister che ci ha convinto a non mollare mai anche se nessuno di noi si faceva illusioni, invece…”. Già, invece a mio ricordo quello fu il primo sprint alla Cipollini vinto dalla Juventus.


Dovettero trascorrere sei anni prima che un evento simile si ripetesse, con lo scudettto alla Juve nel 1973, mentre il Milan cadeva nella Fatal Verona. E poi altri quattro anni. E questa volta, seppur dovessi preservare la mia imparzialità di professionista, la goduria fu veramente massima. L’anno prima, campionato ’75-’76,lo scudetto era finito sulle maglie del Torino allenato da Gigi Radice. Grande squadra davvero, quella di Sala e Pulici e Pecci e Graziani, ma pur sempre la “detestata” cugina. Per “Tuttosport” durante quella stagione seguii spesso i granata e divenni amico di una persona eccezionale come Giorgio Ferrini, il vice di Radice. Capii cosa voleva dire “cuore Toro”, ma egualmente gustai la “vendetta”  della stagione successiva firmata da Trapattoni e dai suoi ragazzi che seppero farsi restituire allo sprint lo scudetto dai granata.

Non era mica finita. Alla vigilia dei Mondiali di Spagna si consumava in Italia un campionato da cuore il gola con la Fiorentina e la Juventus a contendersi il titolo. A Cagliari i viola e a Catanzaro i bianconeri per la volatona decisiva. In Calabria si viveva una sorta di psicodramma. Agnelli aveva già annunciato l’acquisto di Platini e quel gran signore irlandese di Liam Brady avrebbe dovuto cambiare aria. Non ricordo come e in che modo ma, insieme con il collega Roberto Beccantini, riuscii a infilarmi nello spogliatoio a gara iniziata e a andare a piazzarmi dietro la panchina del Trap. La tensione era talmente alta che nessuno se ne accorse. E fu proprio Giovanni che urlò “Il rigore lo calci tu!”, indicando Brady. Tutti, o quasi, pensarono: adesso lo sbaglia per ripicca. Portiere da una parte e pallone dall’altra. Il rigore perfetto. A fine gara entrai con il Trap nello spogliatoio. Una baraonda mitica. Brady, l’uomo scudetto (perché la Fiorentina non era riuscita a fare manco un gol a Cagliari), seduto sulla panca in un angolo stava piangendo.

La stagione 1985-86 vide invece la Roma dover rassegnarsi alla legge bianconera della vittoria sul filo di lana. Era una Juve piena di problemi e destabilizzata dalle voci sulla partenza di Trapattoni. Una squadra che, comunque, riuscì a battere il Milan con un gol di Laudrup mentre la Roma perse incredibilmente con il Lecce in casa per tre a due, il tutto alla penultima giornata di campionato. Ma la volata capolavoro” i bianconeri senza alcun dubbio la realizzarono nel 2002 quando un’Inter irriconoscibile e sconosciuta persino a se stessa, malgrado la presenza di Ronaldo e il favore persino del pubblico biancazzurro, perse all’Olimpico contro la Lazio mentre la Juve dilagò a Udine. Era il 5 maggio. Ei fu, come scrisse il Manzoni per il Bonaparte.

Piccoli ma significativi capitoli, con l'eccezione di Perugia nel 2000 (scudetto alla Lazio), che compongono il grande romanzo del calcio italiano e che potrebbero tornare utili al Napoli per una riflessione sui possibili rischi di uno sprint con la Juventus. Eventi ed episodi che hanno fatto discutere e gridare anche allo scandalo. Ma se invece si trattasse non di Poteri Forti all’opera ma soltanto di bravura e di abitudine bianconera nel saper affrontare e gestire le occasioni più estreme? Mediate, gente, meditate.


“Guarda ora il docufilm sulla Juventus, solo su Netflix”


1966-67


1972-73



1976-77



1981-82



1985-86



2001-02