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    Il calcio deve avere paura di Erdogan

    Il calcio deve avere paura di Erdogan

    Ci sono delle zone nel mondo in cui giocare a calcio ha un significato diverso. Sembra un’assurdità, uno di quei racconti di guerra di anni e anni fa. La realtà però è che questo è il nostro mondo. Vale allora la pena di capire cosa sta accadendo. Sentiamo ogni giorno parlare di libertà, nei telegiornali, nei talk-show, nei lunghi ed interminabili post su Facebook; una parola che usiamo ovunque, senza intenderne il reale significato.

    Il nostro concetto di libertà non è lo stesso dei nativi aborigeni australiani, costretti a vivere come braccianti nelle fattorie di chi ha colonizzato la loro terra ancestrale; non è lo stesso degli indigeni brasiliani dell’Amazzonia, sempre più in ritirata a causa del feroce disboscamento della zona; non è lo stesso dei siriani, ridotti a motivo di imbarazzo per chi nel mondo avrebbe dovuto proteggerli; e sicuramente non è lo stesso dei curdi che da oltre 100 anni vivono alla mercé di un governo che li vuole annullare fisicamente, storicamente e culturalmente. Per loro il calcio equivale a dire: “oggi ci siamo anche noi, oggi proveremo a dire la nostra”.

    Il 2 febbraio del 2016, le forze speciali turche dell’anti-terrorismo hanno fatto irruzione nella sede dell’Amed S.K, mettendo a soqquadro la sede e sequestrando computer e documenti ufficiali del club. Il motivo della retata era un tweet che inneggiava al terrorismo curdo e che in seguito si rivelò essere un fake. Quella irruzione era in realtà un atto intimidatorio organizzato in seguito alla vittoria negli ottavi di finale della Türkiye Kupasi, la Coppa di Turchia, dell’Amed sul Buraspor.

    Ora la domanda sorge spontanea: perché mai la polizia ha dovuto razziare la sede di un piccolo club di terza divisione per una semplice partita vinta? Il motivo è semplice: l’Amed S.K. è la squadra della città di Diyarbakir, capitale del Kurdistan turco e simbolo sportivo della minoranza etnica che il governo di Erdogan sta cercando in tutti i modi di eliminare dalla faccia della Terra e della storia. La crescente escalation della squadra turca, multata nel 2014 per aver cambiato il proprio nome in Amedspor (denominazione curda della città) e modificato lo stemma con i colori del Kurdistan, altro non era agli occhi del governo centrale che il simbolo della resistenza del popolo curdo.

    Le vittorie dell’Amedspor erano e sono tuttora accompagnate da cori ed appelli a favore dei combattenti curdi nella guerra tra il governo turco e il PKK (Partito dei Lavoratori Curdi). Come se non bastasse Deniz Naki, autore di uno dei due gol che hanno eliminato il Bursaspor, è stato squalificato per 12 giornate e multato di 19.500 lire turche per aver pubblicato sui suoi profili social questo post:

    Siamo fieri di essere un piccolo spiraglio di luce per la nostra gente in difficoltà. Come Amedspor, non ci siamo sottomessi e non ci sottometteremo. Lunga vita alla libertà!.

    Il giocatore è stato accusato di “discriminazione e propaganda politica” ed ha dovuto lasciare la Turchia nel novembre dello stesso anno, vittima di un atto intimidatorio. Episodio non rimasto isolato perché il 7 gennaio 2018 la sua auto è stata colpita da due proiettili nei pressi di Duren in Germania. Qualche giorno dopo questo secondo attentato la federazione turca lo ha squalificato per tre anni e multato di 273.000 lire turche per aver protestato contro l’invasione della città di Afrin, città siriana a maggioranza curda.

    Anche prima dell’Amedspor la mia vita è stata costruita sulla libertà, la pace e la lotta per la mia terra. Dopo l’Amedspor continuerò ancora la mia vita con questa attitudine. Ho messo al di sopra di tutto: gentilezza, bellezza, solidarietà, pace, vita umana e patriottismo. Il giorno in cui dovessi rinunciare a questi valori sarei distrutto.

    Le storie dell’Amedspor e di Deniz Naki sono solo due dei tanti episodi che negli ultimi anni evidenziano il tentativo di Erdogan (che con la riforma costituzionale del 2017 ha rafforzato ancora di più i suoi poteri, aprendo di fatto la strada ad un regime autocratico) di usare il calcio come uno strumento politico di affermazione personale e silenziare ogni possibile opposizione.

    Una vittima illustre di questo processo decadente verso un sistema dispotico è senz’altro Hakan Sukur. I più lo ricorderanno per aver giocato nel campionato italiano con la maglia dell’Inter nella stagione 2000/01, ma in Turchia Hakan Sukur fino al 2015 è stato un’icona, se non l’Icona del calcio turco. Se il Galatasaray e la Turchia in generale possono vantare un minimo di gloria in campo internazionale lo devono a lui.

    Il calcio deve avere paura di Erdogan

    Nel 2000 ha regalato l’unico trofeo europeo ad una squadra turca, vincendo la Coppa Uefa con il Galatasaray, ma soprattutto ha trascinato la Turchia ad uno storico terzo posto nei Mondiali del 2002. Insomma, una specie di eroe nazionale.

    Nel 1995 il suo primo matrimonio è stato festeggiato come un evento sul calendario di tutti i turchi. Ironia della sorte, a celebrarne le nozze fu proprio Recep Tayyp Erdogan, colui che nel 2015 lo ha costretto alla fuga negli USA e poi, nel 2016, dopo averne confiscato tutti i beni e incarcerato il padre, ha fatto emettere un ordine di arresto nei suoi confronti perché ritenuto complice del (presunto) golpe del 15 luglio. Golpe che secondo l’AKP (Partito per la Giustizia e lo Sviluppo) ha avuto in Fethullah Gulen, padre politico di Hakan Sukur, la mente organizzatrice.

    Ora il giocatore che detiene il record di gol fatti con la maglia delle stelle crescenti (51) gestisce con la sua famiglia una tavola calda a Palo Alto. In Turchia nessuno può parlare di lui, ci sono spie e delatori del governo in ogni bar, caffetteria o ristorante. I tifosi allo stadio non possono neppure dedicargli cori o striscioni per non subire ritorsioni pesanti dalla polizia. Lo stesso Galatasaray che per anni ha goduto delle gesta del miglior giocatore della sua storia è stato costretto a cambiare le titolazioni di alcune strutture a lui dedicate. Un tentativo neanche troppo velato di cancellarlo dalla storia.

    Se avessi detto quello che volevano loro sarei diventato ministro. Invece vendo caffè, ma almeno ho ancora rispetto per me stesso.

    Per un giocatore che cade nell’oblio ce n’è un altro che nella terra al confine tra due mondi è salito agli onori della cronaca, Arda Turan. Dopo quasi 7 stagioni più o meno felici in Spagna tra Atletico Madrid e Barcellona, il turco quest’anno è ritornato in patria nel Basaksehir, la squadra dell’AKP (ci ritorneremo in seguito). Arda Turan è da sempre un sostenitore di Erdogan, appoggio che in quel di Catalogna gli è costato più di una critica, ma che in Turchia lo ha reso una star. Un legame che ha trovato il suo apice l’11 marzo quando l’ex Barça si è sposato e ha scelto come testimone il presidentissimo. E in suo onore la cerimonia ha subìto notevoli restrizioni (su tutte la proibizione di ogni tipo di bevanda alcolica) perché Erdogan è un musulmano integralista.

    Arda Turan non è l’unico giocatore usato da Erdogan per la propria propaganda politica. Qualche settimana fa in Germania hanno suscitato non poche polemiche le foto che ritraggono il premier turco con Ozil e Gundogan (giocatori turchi naturalizzati tedeschi). E’ stata lanciata persino una petizione su change.org per chiedere l’esclusione dei due dalla selezione tedesca in vista di Russia 2018; si è arrivati a 30.000 firme. I due si sono difesi dichiarando:

    Non volevamo trasmettere messaggi politici. Siamo calciatori non politici. Avremmo dovuto essere scortesi col presidente della nazione d’origine dei nostri genitori? Capisco le critiche, ma noi abbiamo scelto la strada della cortesia.

    Più furbo di loro è stato Emre Can che ha declinato l’invito ad incontrare il premier turco.

    Il calcio deve avere paura di Erdogan


    L’intromissione dell’AKP nel calcio è però molto più invasiva di quanto si potrebbe immaginare perché Erdogan, come tutti gli uomini di potere, ha una sola paura: l’ignoto. E un solo obiettivo, il controllo totale. Su questa base nasce la carta Passolig, una specie di tessera del tifoso, ma molto più restrittiva. Senza la carta non è possibile acquistare i biglietti delle partite. I dati richiesti per averla sono: nome, cognome, riconoscimento facciale, numero del cellulare e coordinate bancarie.

    Un tentativo da Grande Fratello per tenere anche a bada gli Ultras, in particolar modo quelli del Galatasaray, Fenerbahce e Besiktas che nel giugno del 2013 misero da parte le loro ostilità per unirsi alle migliaia di persone durante le proteste scoppiate in piazza Taksim.

    Ma il meglio deve ancora venire e si chiama Istanbul Basaksehir. Il Basaksehir è a tutti gli effetti la squadra dell’AKP, ed è per usare un’espressione del NY Times “il club del governo”. I colori dei seggiolini dello stadio sono gli stessi del partito.

    Prima delle partite vengono mostrate sul maxi-schermo le immagini delle truppe turche che avanzano in Siria, le mascotte sono dei bambini vestiti da soldati ottomani e l’entrata dei giocatori in campo è accompagnata dal coro Dio è grande. Goksel Gumusdag, il presidente del club, continua a negare la presenza di un legame tra la squadra e l’AKP. Il problema è che lui stesso è un membro del Partito fondato da Erdogan.

    Il Basaksehir negli ultimi anni ha lottato con le Tre Grandi (Galatasaray, Besiktas e Fenerbahce) per la vittoria della Super Lig. Tra le sue file trovano posto giocatori come il capitano Emre Belozoglu, Gael Clichy, Adebayor, Eljero Elia, Gokhan Inler e ovviamente lui, Arda Turan. Tutto questo è stato possibile grazie ai finanziamenti del Governo che hanno reso grande una squadra che fino a 10 anni fa viveva all’ombra della terza categoria. Qualche anno fa il Premio Nobel Omar Pamuk spiegava che in Turchia il calcio non è l’oppio dei popoli, ma

    una macchina per produrre nazionalismo, xenofobia e pensiero autoritario.

    Una macchina che continua a raccogliere sempre più adepti. E’ il caso del “nostro” Cengiz Under, che dopo la sua prima doppietta giallorossa ha postato questa foto. Da molti interpretato come un chiaro omaggio ai 3 soldati turchi, vittime degli scontri durante l’assedio di Afrin.

    Il calcio in Turchia è malato, i pochi giornalisti che provano a raccontare ciò che realmente accade vengono silenziati con minacce e arresti. Tutto questo mentre l’Europa continua a definire Erdogan un “partner strategico”. E’ la real politik bellezza!

    Tratto da www.rivistacontrasti.it

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