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  • Vivo X Lei, Borioni: ai Della Valle non interessa vincere

    Vivo X Lei, Borioni: ai Della Valle non interessa vincere

    NON INTERESSA IL RISULTATO SPORTIVO - di Ghebbe 
    Era l’agosto del 2009, la Fiorentina si apprestava a giocare la sua seconda Champions League consecutiva.
    C’era grande attesa, la squadra era allenata bene, le mancava pochissimo per poter veramente competere ad ogni livello. Felipe Melo all’epoca era un bel mediano, anche se aveva già tutti i crismi del coglione. Aveva appena rinnovato e noi con un altro centrocampista avremmo avuto il reparto al completo.

    Improvvisamente la Juve ci fa un’offerta quasi disumana, regalandoci 25 mln € più Cristiano Zanetti e Marchionni (e i loro altissimi stipendi). A quel punto di centrocampisti ce ne mancano due, ma nessuno si preoccupa perché Corvino fino a quel momento non aveva sbagliato un colpo e francamente la cifra era irrinunciabile. A fine agosto viene ceduto anche Kuzmanovic ed è così che iniziamo la stagione più importante dell’epoca Della Valle: senza due titolari di centrocampo e con un nuovo acquisto (Zanetti) fragile come uno “Swarovski”. 

    È da quel giorno che ho una precisa idea sulla gestione della famiglia Della Valle in merito alla Fiorentina.

    Una gestione asettica, imprenditoriale, precisa, finanziariamente inappuntabile, senza però il minimo interesse per il risultato sportivo.
    Soprattutto dopo “Calciopoli” la Fiorentina per i nostri proprietari altro non rimane che un giochino che deve costare annualmente X, un mero investimento che deve portare ad un ritorno d’immagine, di rapporti interpersonali, pubblicitario. Niente di illecito o di sbagliato, per carità. Gli investimenti questo sono.

    Ovviamente la spesa annua (dai 15 ai 20 mln € spesi) è misurabile con estrema precisione, basta leggere i bilanci. I presunti profitti derivanti da questo investimento invece non lo sono affatto, anche se è abbastanza facile rendersi conto del “peso specifico” della famiglia Della Valle nell’imprenditoria, nella politica, nell’opinione pubblica, nei trasporti, nella stampa […] oggi e quello che era 15 anni fa.
    Tutto questo preambolo per ritornare ai giorni nostri.
    A precisa domanda, Cognigni il 4 gennaio 2016 risponde così:
    « Una qualificazione Champions come modificherebbe l’orizzonte viola? "Intanto vuol dire confrontarsi con squadre che hanno una dimensione galattica. Giocare quel torneo è una gratificazione che costringe a essere ancora più attenti perché obbliga a un aumento del monte ingaggi e senza una continuità sportiva può essere rischioso”. »
    C’è qualcos’altro da aggiungere? 

    In 14 anni di gestione Della Valle non c’è mai stata una vera e propria contestazione. Qualcuno come sempre a Firenze (e a giudicare anche dalle altre piazze direi OVUNQUE) non è d’accordo su alcune scelte, su alcuni atteggiamenti. Quegli atteggiamenti che dimostrano come non vi sia alcun interesse sportivo (e affettivo, perché il calcio muove i sentimenti, visto che senza quelli non si muoverebbero neanche i soldi…) reale dietro a determinati comportamenti. 30 persone (forse neanche 30) chiedono ad Andrea Della Valle di “spendere” nel mercato invernale (dopo un 2015 straordinario dal punto di vista finanziario, con cessioni importantissime e remunerative) e lui che non si confronta, che non si ferma, che non sorride né s’incazza. Prende, esce da una porta secondaria e se ne va. Come se fosse stato aggredito, come se volesse dire: “con voi non mi ci perdo neanche”. Sarebbero bastati due parole e due sorrisi. Ma il carisma o ce l’hai o non ce l’avrai mai.

    Un giorno cambieremo proprietà. 
    Lotteremo per traguardi meno ambiziosi, avremo risultati peggiori di questi, che sono tra i migliori della nostra storia, va detto. Avremo giocatori peggiori. Soffriremo di più. Chissà quanti ci diranno: “lo avevo detto io che era meglio tenerseli i marchigiani”… 

    Magari però recupereremo qualcuno di quei 15.000 ragazzi che oggi disertano lo stadio. E forse quel “fuoco dentro” tornerà a riaccendersi come qualche anno fa.
    Il calcio è passione, non è “imprenditoria comune”. Abbiamo apprezzato il tentativo, vi ringraziamo di tutto. 
    Che inizi l’asta. Così che potremo fare i conti anche noi.


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    Luca Borioni risponde: 


    Il discorso che fa Ghebbe a proposito della Fiorentina ha un fondamento e potrebbe essere applicato a molti altri club, in particolare a quelli della stessa tipologia - per seguito di tifosi, dimensioni della città e soprattutto "potenza di fuoco" - dei viola. Ovvero: arriva un imprenditore di grandi prospettive economiche, acquista un club di calcio in difficoltà, lo rianima applicando allo stesso la sua filosofia manageriale, ottiene buoni risultati senza perdere di vista il bilancio. Ma non fa breccia nel cuore dei tifosi. 
    Tanto per non fare nomi, proprio come i Della Valle. Oppure come Cairo al Torino. Perché sia quando i successi ci sono e sia quando le vittorie latitano, la sensazione è che non ci sia cuore, manchi il feeling, ogni azione sia asettica, ogni mossa di mercato funzionale al business plan e poco alle ambizioni della piazza.
    Se andiamo fuori dai confini italiani, stesso discorso. Basta guardare all'Inghilterra e a quei club, sempre di più, che finiscono nelle mani di tycoon stranieri i quali poi devono fare i conti con tifosi legatissimi alle tradizioni che magari boicottano il marketing del club e rivendicano l'appartenenza ai colori della propria squadra.
    Tutto questo per dire che le leggi del management non sempre funzionano se applicate asetticamente al calcio, un gioco che è divenuto business ma dove la passione resta un sentimento difficile da "targettizzare" e "monetizzare", eppure è fondamentale.
    A pensarci bene, non è solo un problema dei club di medio-alto livello esposti alle mire di imprenditori ambiziosi e vagamente simpatizzanti. Anche le grandi possono rischiare di perdere il legame di passione con i tifosi se gestite come un'azienda qualunque dall'investitore di turno, che magari fa spola con la sua residenza dall'altra parte del mondo e viene toccato solo di striscio dalle problematiche sociali connesse alla squadra che ha deciso di gestire.
    Sembra quasi che il calcio moderno, fatalmente inquadrato in un'ottica di investimenti e ricavi, riscopra la nostalgia dei presidenti-padri di famiglia protagonisti degli anni '80, quelli che almeno si identificavano pienamente nella squadra di proprietà.
    Forse oggi non si può dire la stessa cosa dei Della Valle o dei Cairo, che hanno alzato il livello manageriale, così come i profitti, ma non certo la passione. Tanto che i risultati sportivi passano quasi in secondo piano se mettono in crisi il business plan aziendale. Perché il calcio è un'azienda, dove però il cuore conta più del calcolo. 
    La soluzione? Rendere i tifosi sempre più partecipi. 


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