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  • Almeyda, dalla B con il River al capolavoro AEK in Grecia: ritratto di un guerriero

    Almeyda, dalla B con il River al capolavoro AEK in Grecia: ritratto di un guerriero

    • Remo Gandolfi
      Remo Gandolfi
    È il 26 giugno del 2011.

    È il giorno più nefasto nei centodieci anni di storia del club della “Banda”.


    Il pareggio (per 1-1) di quel pomeriggio al Monumental contro il Belgrano significa per il River Plate la retrocessione nel “Nacional B”, la serie cadetta del calcio argentino.

    Qualcosa di impensabile per un club con la tradizione, il seguito e i successi del River.

    Matias Almeyda, squalificato per aver ricevuto la quinta ammonizione nella partita di andata di questa finale play-out persa dal River per 0 a 2, ha assistito inerme da bordo campo a quell’imprevedibile e devastante tracollo.

    “El Pelado” ha già comunicato da diverso tempo al suo presidente Daniel Passarella che quella sarebbe stata la sua ultima stagione in pantaloncini corti.

    Ha quasi 38 anni e di chilometri in una cancha ne ha percorsi davvero tanti.

    Matias Almeyda è il River Plate.

    È il giocatore simbolo, il più rappresentativo, il più carismatico e, secondo tifosi e addetti ai lavori, è ancora il più forte, il più resistente e soprattutto sempre l’ultimo a mollare.

    Oggi, però, in questo tragico 26 giugno, Matias non è in campo.

    Doveva essere la sua ultima partita con il River.

    Invece è solo uno spettatore, un hincha in più che sta soffrendo per una retrocessione che si è trasformata da incubo delle settimane precedenti in una spietata realtà.

    A fine partita ci sarà tanta rabbia e purtroppo anche tanta violenza di una parte dei sostenitori del River, che semplicemente non riescono a elaborare questo dolore enorme.

    Il senso di colpa che attanaglia il presidente Passarella, la dirigenza, lo staff tecnico e tutta la rosa è un macigno pesantissimo da portare.

    La storia li ricorderà in eterno per essere “quelli che sono retrocessi con il River”. Un marchio a fuoco sulla loro pelle, sulle loro carriere e sulle loro vite.

    Matias Almeyda passerà quella notte a piangere “come non avevo mai fatto in vita mia per una partita di calcio”.

    Solo che Matias Almeyda è un guerriero. Un lottatore indomito. Matias Almeyda è un leone.

    La mattina dopo il dolore si è già trasformato in qualcosa di diverso: è diventato “sete di rivincita”.

    Due mesi prima, quando Matias aveva comunicato a Passarella la sua decisione di smettere con il calcio, “El Caudillo”, uomo intelligente e grande conoscitore del calcio e del River Plate, gli aveva risposto così: “Pela, io se fossi in te giocherei almeno un altro semestre. Ma, se davvero vuoi smettere, io voglio te sulla panchina del nostro querido River”.

    Matias Almeyda ricorda bene quella conversazione, così prende in mano il telefono.

    Sa che le cose sono cambiate e sa benissimo che è una follia, un’autentica follia prendere in mano il River in un momento del genere.

    “Daniel, se tu non hai intenzione di mollare sappi che non ce l’ho di certo io”.

    Queste sono le parole di Matias in quella telefonata al suo presidente.

    A Daniel Passarella non sembra vero.

    Matias Almeyda, l’uomo più amato da tutto il popolo del River, è disposto a sedersi sulla panchina dei “Millionarios”.

    Con tutto da perdere e nulla, ma veramente nulla da guadagnare.

    Matias ha infatti una sola possibilità: riportare il River nella massima divisione argentina. Qualunque altro risultato sarebbe inaccettabile: un’autentica catastrofe, identica, se non peggiore, a quella di essere retrocessi.

    Solo che Matias Almeyda quella sfida l’accetta. E solo per amore del River.

    Ma anche e soprattutto perché Matias Almeyda, come dicono da quelle parti, “tiene dos huevos asi!”.

    Il River, non senza soffrire le pene dell’inferno, torna nella massima serie argentina.

    Matias ce l’ha fatta.

    Accettando di mettere in gioco tutto sé stesso.

    Nella stagione successiva però le cose non vanno come sperato.

    Il River fatica a trovare continuità.

    Sarebbe anche normale visto che un periodo di assestamento dopo la serie cadetta può starci.

    La dirigenza non ha pazienza e decide di prescindere da lui.

    Matias Almeyda lascia il suo River senza polemiche.

    Ha però capito una cosa importante: che allenare gli piace e che forse non è neppure scarso.

    Soprattutto restare nel calcio gli ha ridato quell’energia vitale che quando smise di giocare nel 2009 lo fece sprofondare in una crisi depressiva in cui l’alcol sembrava essere l’unico rifugio.

    L’anno successivo, nell’aprile del 2013, arriva la chiamata del Banfield, che langue nella serie cadetta del calcio argentino.

    Alla sua prima stagione completa riporta “El Taladro” in Primera, giocando un calcio offensivo e spettacolare.

    Ma è nel 2015 che arriva la vera prima grande svolta nella carriera di “Mister” del “Pelado”.

    A volerlo è uno dei più prestigiosi club messicani, il Chivas di Guadalajara
    , in quel momento penultimo in campionato.

    Per le “capre” (questo il soprannome del Club) sarà la scelta più azzeccata da anni.

    Matias trasforma la squadra.

    E la fa semplicemente migliorando i giocatori a disposizione, facendoli crescere e regalando loro quella mentalità vincente e quello spirito battagliero che contraddistingueva le prestazioni di Almeyda calciatore.

    Il Chivas, composto solo ed esclusivamente da calciatori messicani, torna ad essere una realtà con cui tutti in Messico devono fare i conti.

    Ma nessuno, neanche il più ottimista dei tifosi del “Rebaño Sagrado (gregge sacro)” può immaginare quello che sta per accadere.

    A pochi mesi dal suo arrivo Matias conduce il Chivas alla vittoria nella Coppa Nazionale ... seguito poi da tutto quello che si poteva vincere, incluso un campionato “Clausura” nel 2017 ... facendo la doppietta con un’altra Coppa nazionale!

    Il 25 aprile del 2018 arriva l’apoteosi: il Chivas di Guadalajara vince la Champions League della CONCACAF, il massimo trofeo di calcio del Nord e Centro America.

    A quel punto si pensa che finalmente ci si accorga di Matias Almeyda anche in Europa.

    Invece è il campionato statunitense la nuova meta di Almeyda.

    Si trasferisce in California presso i San Josè Earthquakes.

    Tre stagioni più che dignitose dove, pur senza risultati eclatanti, viene ricordato per il calcio spumeggiante e propositivo offerto.

    Si arriva così alla primavera dello scorso anno.

    Finalmente arriva la chiamata dall’Europa.

    Non arriva da uno dei principali campionati europei ma dalla Grecia.

    E’ l’AEK di Atene che nel maggio dello scorso anno mette sotto contratto Almeyda.


    Le “Aquile” vengono da diversi campionati deludenti.

    Per una squadra del blasone dei “gialloneri” i quarti e quinti posti raggiunti nelle ultime stagioni sono semplicemente inaccettabili.

    Almeyda firma un contratto di due anni con un’opzione per il terzo.

    «Alla fine del secondo anno dobbiamo tornare in Champions. Se non da campioni, almeno da secondi in classifica.»

    Questo è l’obiettivo chiaro ed esplicito della dirigenza.

    Solo che il 12 maggio del 2023, a cinque anni dall’ultimo titolo, l’AEK Atene torna ad essere campione di Grecia.

    Battendo Panathinaikos e Olympiakos, le grandi favorite della vigilia, e facendo impazzire di gioia i propri tifosi.

    Almeyda ha fatto l’ennesimo capolavoro della sua carriera.

    Giocando il suo calcio, fatto di coraggio e di organizzazione ... e con uno schema di gioco che molti giudicherebbero sorpassato: un 4-4-2 con il famoso “rombo” di centrocampo, ovvero con un centrocampista a protezione della difesa (il polacco Damian Szymański) e un trequartista (il messicano Orbelin Pineda o il greco Petros Mantalos) alle spalle di due punte “vere” come il bomber argentino Sergio Araujo, il trinidadiano Levi Garcia con l’esperto olandese Tom Van Veert a subentrare.

    La domanda adesso però è tremendamente “calda”: quanto ci vorrà ancora prima che un grande club di un grande campionato si accorga che qui stiamo parlando di uno degli allenatori più preparati, competenti e “vincenti” del pianeta?

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