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Da Weah a Klinsmann: gli Stati Uniti ripartono con i figli di immigrati

Da Weah a Klinsmann: gli Stati Uniti ripartono con i figli di immigrati

  • Furio Zara
Sul calcio Usa si devono/possono molte cose, per fotografarlo ora ne bastano tre. Una: il soccer da quelle parti è femminile. Lo praticano le ragazze. Molte più femmine dei maschi, nei licei la percentuale delle ragazze è pari al 60-65% rispetto ai maschi. Il Senato ha approvato una legge per la parità dei salari (una cosa simile esiste solo in Norvegia). La nazionale di calcio femminile ha vinto tre titoli del mondo e quattro volte ha conquistato la medaglia d’oro alle Olimpiadi. Per questo gode di una esposizione mediatica che la nazionale maschile - che affrontiamo stasera - può solo sognare. Il miglior obiettivo della nazionale a stelle e strisce maschile è stato il raggiungimento dei quarti di finale al Mondiale di Corea-Giappone 2002. Due: è sempre stato al confine tra folclore e professionismo. E’ un bel divertimento, nient’altro.  Gli americani non sentono il soccer come una cosa loro. Questione di identità. Le high school non «formano» calciatori, ma giocatori di altri sport. Non è mai stato preso «veramente» sul serio, surclassato da superpotenze come baseball, basket, football (americano) e hockey. Ora qualcosa sta cambiando, ma la strada è ancora lunga. Tre: di tentativi ce ne sono stati, tutti più o meno falliti. La NASL - la lega che arruolò i migliori: da Pelè a Cruijff fino a Beckenbauer - nacque nel 1968, per poi sparire nel 1984: tanti campioni, poca crescita del movimento. Nel 1995 è nata la MLS. Un anno prima - 1994 - gli Usa hanno organizzato il Mondiale. Doveva essere il piedistallo per il salto di qualità, si è rivelato l’ennesimo tentativo andato a vuoto.

La nazionale che affrontiamo stasera è figlia di questa situazione. E’ una nazionale composta da figli di immigrati. Nomi più famosi (ma per ora futuribili): Jonathan Klinsmann e Timothy Weah, parliamo dei figli degli ex centravanti di Inter e Milan. Guzan e Miazga (Polonia), Horvath (Ungheria), Trapp (Grecia), Delgado e Villafaña (Messico), Moore (Trinidad e Tobago), Gall (Francia), Robinson (Inghilterra), Pulisic (Croazia), Green e Brooks (Germania): la nazionale Usa è questa, un villaggio globale che costituisce l’ossatura della squadra guidata da Dave Sarachan. Che è reduce dalla sconfitta con l’Inghilterra (3-0 qualche giorno fa), ma che a ottobre ha pareggiato contro il Perù e a settembre ha battuto il Messico (1-0).

Quella di domani è la 12ª sfida tra Italia e Usa. Sette vittorie azzurre, tre pareggi e una vittoria Usa, nella partita più recente, nel 2012 in amichevole a Genova (da dove partì Cristoforo Colombo per la scoperta dell’America e poi dite che la Storia non sa scriversi da sola). A Marassi decise un gol di Dempsey, era l’Italia di Prandelli che in estate sarebbe arrivata seconda all’Europeo, perdendo la finale contro la Spagna. La vittoria più tonda è stata quella alle Olimpiadi del 1948: 9-0 per noi. Abbiamo affrontato gli Usa anche in tre Mondiali. Nel 1934, 7-1 per gli azzurri, troppo forti noi troppo deboli loro. Nel 1990, Notti Magiche ma fino a un certo punto. E nel 2006, cavalcata verso Berlino. Nel 1990 all’Olimpico segnò subito Giannini, poi Vialli sbagliò un rigore. In Germania chiudemmo la partita sulla’1-1, con De Rossi espulso e squalificato per una gomitata carogna ad un avversario. Ora quest’amichevole in Belgio tra una nazionale a caccia di certezze (l’Italia) e un’altra che cerca un’identità, in un percorso lungo che dovrà far crescere il movimento e farlo trovare pronto per il traguardo del 2026, ovvero l’anno dei Mondiali condivisi da Usa, Canada e Messico. 
 

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