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  • Discriminazione territoriale: quei tifosi juventini che insultano se stessi

    Discriminazione territoriale: quei tifosi juventini che insultano se stessi

    • Massimo Corcione per Il Mattino

    Siamo stanchi di essere insultati da un branco di incivili che popola le curve degli stadi di mezza Italia. Incivili e soprattutto ignoranti. Ignorano che proprio le squadre per le quali dicono di tifare – la Juventus, il Milan, l’Inter – hanno nel Sud roccheforti di passione con decine di migliaia di entusiasti proseliti, pronti a tradire la logica delle origini in nome della fede bianconera, rosso o nerazzurra. In quelle stesse curve siedono meridionali purissimi che ogni settimana si sottopongono a massacranti trasferte per essere sulle gradinate di San Siro o del fantastico Stadium juventino. Manuela, per esempio: è una ragazzina modello, ha vent’anni e un curriculum universitario di prim’ordine, i suoi sabato sera non li passa in discoteca, ma stipata in un pullman che porta i tifosi juventini dovunque giochi la loro squadra. Sì, loro, perché il senso di appartenenza è radicato quanto lo è in chi risiede a Grugliasco o a Cuneo. Come deve sentirsi Manuela quando da quegli stessi settori che lei frequenta si levano gli insopportabili cori che invocano il risveglio del Vesuvio o rievocano l’epidemia di colera datata 1973, anno in cui la quasi totalità di quei barbari ragazzotti non era neppure nata? 

    Questa brutta storia è antica, riemerge ogni volta in cui il Napoli comincia a vincere. Succedeva ai tempi di Maradona, torna ora che l’azzurro è di nuovo un colore di moda, in Italia e in Europa. Venticinque anni fa ci fu un fantastico striscione (“Giulietta è ‘na zoccola”) in risposta alle malefiche invocazioni veronesi: l’ironia per spegnere l’odio. Ma non esiste una giustificazione che possa far classificare il fenomeno come “inevitabile risvolto della passione sportiva”. Di giustificabile in quelle manifestazioni di pura inciviltà non c’è nulla. 

    Un pensiero razionale vorrebbe che dietro i cori si nascondesse una vaga idea secessionistica del tifo: ognuno tenga alla propria squadra e nemici per sempre. Invece non può essere così: i grandi club hanno nel marketing l’unico sbocco per incrementare le proprie entrate. E la riduzione della base sarebbe una scelta suicida, alla quale nessuno ha mai pensato. Dei trenta milioni di sostenitori italiani che Juventus, Milan e Inter si dividono, una fetta cospicua alberga proprio nei luoghi che quegli incolti vorrebbero travolti da apocalittiche sciagure. Lì vengono piazzati abbonamenti, biglietti e maglie originali; si contano quei tifosi quando c’è da ribadire una supremazia di bacino che travolge i tradizionali confini geografici e distribuisce parte dei proventi televisivi. Insomma rappresentano una ricchezza che va tutelata come patrimonio irrinunciabile. Più che protestare per le sanzioni, più che discettare sugli aggettivi da usare per qualificare giuridicamente quei cori comunque ignobili, servirebbe una campagna di educazione. La Juventus è guidata da un leccese, Conte; il Milan ha il suo simbolo in Balotelli che giustamente s’incavola anche per un’occhiata che possa alludere al colore della sua pelle; l’Inter con Thoir nuovo proprietario partirà presto alla conquista di tifosi nel sud del mondo: tutti devono guardare al sud d’Italia. Serve rispetto, c’è scritto anche sulle maglie della Champions, il campionato d’Europa cui tutti tendono come obiettivo primario. Non c’entrano il Napoli che spopola, le vittorie che Benitez sta collezionando, il prestigio conquistato che diventa paura negli avversari; qui è solo questione di rispetto. Senza quello, c’è la barbarie.

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