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  • Paolo Rossi, un buono nel quale tutti riconoscevamo la nostra età più felice
Paolo Rossi, un buono nel quale tutti riconoscevamo la nostra età più felice

Paolo Rossi, un buono nel quale tutti riconoscevamo la nostra età più felice

  • Furio Zara
    Furio Zara
Venerdì dalle ore 15 alle 20 sarà allestita la camera ardente aperta al pubblico presso lo stadio Menti di Vicenza per un ultimo saluto a Paolo Rossi. 

Non l'ho mai sentito dire "io". Mai. Era Paolo Rossi.
Non l'ho mai sentito vantarsi. Scansava la gloria con leggerezza, smontava la celebrità con un sorriso, rifiutava la bolsa retorica di cui si rivestono molti suoi colleghi, quando hanno smesso e non ne vogliono sapere. Ci sono persone umili naturalmente, nascono così. E’ un dono, poi diventa un’attitudine. Hanno una serenità che è rara, sanno distinguere ciò che conta nella vita dalle cazzate e dalla fuffa che ci circonda. Ho avuto il privilegio di lavorare con Paolo Rossi alla Domenica Sportiva, dove faceva l'opinionista. Il Pablito che ho conosciuto era una persona preziosa. Gentile con tutti, induceva noi altri al buon umore, se mi consentite il paragone, come lo zucchero a velo su un croissant o un po’ di sole all’improvviso, quando non te lo aspetti. Il mio piccolo ricordo personale - nel mare d’affetto di queste ore - mi riporta un vecchio ragazzo sempre sorridente, che si aggira tra i corridoi della RAI di Corso Sempione con gli occhi addosso di tutti, perché tutti in lui riconoscevano l'età felice. Era Paolo Rossi. Da pronunciare tutto attaccato, come si tengono attaccati i ricordi. Quando guardavamo le partite del pomeriggio, prima della trasmissione, i suoi amici Marco Tardelli ed Eraldo Pecci, compagni e avversari di tante domeniche lontane, si scaldavano per questa o quell’azione di gioco, per un tiro ben riuscito, per un gol particolarmente bello. Paolo no. Guardava il calcio giocato di questi giorni con affetto, forse con riconoscenza per quello che gli aveva dato - ma tanto gli aveva anche tolto - ma era come se tutto - questi protagonisti, queste partite - fossero qualcosa da osservare da lontano con disincanto, serenamente, pacificati di essere da questa parte - seduto su un divano - anziché in area di rigore avversaria, a ritagliarsi uno spazio per uno dei suoi celebri gol.

Era rimasto molto legato a Vicenza. Una volta gli portai delle vecchie foto di un amico che era stato in seminario vescovile in città. Paolo conosceva bene quei posti, perché con i compagni del Lanerossi ci andava una volta alla settimana, a giocare una partitella con i ragazzi. Si divertì un sacco a riconoscere i volti, i luoghi. Si sorprese nel ricordare i nomi di alcuni di quei ragazzi che all'epoca avevano lo splendore dei suoi vent’anni. Mi raccontò che era normale, allora, per i calciatori, essere in mezzo alla gente, essere gente tra la gente.
 
Pochi minuti fa ho sentito al telefono Domenico Marocchino, amico di Paolo, opinionista anche lui in RAI, compagno di squadra ai tempi della Juve e - soprattutto - nelle giovanili bianconere, «dai 14 ai 18 anni, in quell’età bellissima e irripetibile», mi ha detto Marocco. Abbiamo ricordato qualche episodio, poi Marocchino - col groppo in gola e parole sue «con un fastidio addosso» - ha detto una cosa definitiva. «Paolo era buono». Era davvero così. Era buono. Non lo usiamo più, questo aggettivo. Liquidiamo i buoni in fretta, ospiti inattesi di una vita feroce. Paolo Rossi era buono, sì. Non era - la sua - una bontà costruita, bensì la naturale disposizione d'animo di chi si è fatto amica la vita. Era la sua forza, era la sua unicità. Se chiudo gli occhi lo rivedo una mattina a colazione, nell'albergo milanese dove noi si alloggia dopo la Domenica Sportiva. E’ con la moglie Federica e le figlie piccole, Maria Vittoria e Sofia. E’ appena sceso nella sala, scambiamo un paio di battute, mi presenta alla famiglia, mi dice che di lì a poco andranno a fare un giro in centro, perché è una bella giornata di sole e allora bisogna approfittarne. Prima di salutarci, lo vedo mentre spalma della marmellata su una fetta biscottata, gliel’hanno appena chiesto le sue figlie, poi sono corse a giocare tra i tavoli. Lo fa sorridendo, persino divertito, attento a non spezzare la fetta, appoggiando piano il coltello, con tutta la tenerezza del mondo, perché quella - in quel momento - è davvero la cosa più importante del mondo.

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