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  • Ventura come Conte: è possibile gestire la Nazionale come un club

    Ventura come Conte: è possibile gestire la Nazionale come un club

    • Matteo Quaglini
    L’idea è complessa e per questo molto affascinante, fare della nazionale una squadra e non una selezione. Giampiero Ventura appartiene a quella categoria di allenatori che ragiona sulla costruzione di squadre e non sull’assemblaggio di gruppi. La differenza non è solo nell’uso di una parola è invece, una differenza decisiva nell’articolare e costruire una formazione che rappresenti un movimento calcistico in campo internazionale. Il concetto di squadra è quello di una forza che abbia una mentalità condivisa, di un lavoro strutturato nei minimi dettagli, di una ripetizione quasi meccanica dei principi di gioco fino a renderli automatici e definiti. Una squadra pensa, si muove e agisce tutta insieme.

    Una squadra sa leggere le situazioni che si sviluppano
    in campo e sa rispondere secondo un piano prestabilito: sa cosa fare in difesa,  a centrocampo e in attacco, sa soprattutto e questo è il punto centrale come uscire dalle difficoltà, ribaltandole. Un gruppo, no. Il gruppo lavora per settori scegliendo letture legate al gioco momentanee e individuali. Le sue azioni sono dettate dalla selezione dei momenti migliori degli interpreti, gesti tecnici e accorgimenti tattici. C’è una grande differenza di filosofia calcistica in queste due costruzioni. Giampiero Ventura cerca la più ardita tra le due battendo la strada complessa di forte utopia calcistica, fare della nazionale una squadra. Il suo manifesto è in una frase: “Io sono un allenatore non un selezionatore”. La via è tracciata, sulle orme di Conte che aveva avviato in questa direzione con buon successo una piccola rivoluzione copernicana e su un filone storico legato al progetto rivoluzionario del 1992 pensato e voluto dall’allora Presidente federale Antonio Matarrese e sviluppato con punti di luci ma anche oscuri vuoti da un rivoluzionario unitario come Arrigo Sacchi.

    La domanda oggi che questo pensiero torna nel dibattito calcistico: E’ dunque possibile fare della nazionale italiana, una squadra? La risposta guardando la storia sembrerebbe propendere per il no. I tentativi rivoluzionari pur portando un gran contributo sono stati incompleti. Il nostro stile è più quello di trovare unione d’intenti nella tensione delle grandi manifestazioni, che ragionare passo dopo passo su costruzioni prima semplici e poi complesse per arrivare a essere definite nel confronto europeo. C’è anche una passione maggiore per il campionato e le sue polemiche (che se alte, sono il cuore del discorso, per dirla come Massimo Fini), c’è la Champions che con il suo fascino seduce maggiormente i giocatori, di un’Italia–Azerbaijan. E poi a cascata il calendario internazionale, le coppe nazionali e il tempo un po’ seduttore, un po’ tiranno, sempre maledettamente corto e frenetico. A favore della tesi del no, alta e fondata sulla storia, c’è anche il fatto che noi abbiamo vinto 4 mondiali pensando alla selezione dei migliori e non alla costruzione generale. A ben vedere però lì abbiamo giocato da squadra e non da gruppo e gli allenatori (Pozzo, Bearzot e Lippi) hanno allenato da coach e non da selezionatori. Siamo forse più per un sistema misto che selezioni prima e pensi poi nel mese in cui il gruppo si riunisce a costruire la squadra. Siamo legati al tempo. Ne facciamo un uso tattico e non strategico.

    In fondo è per via di concetti generali e strutturali del calcio che tutte le nazionali pensino più in termini di selezione che di squadra. Ma anche negli ultimi anni ci sono state costruzioni tecniche che ci fanno pensare a nazionali organizzate e modellate con i tratti della squadra. La Spagna, la Germania in minor parte e per poco tempo con minor qualità complessiva la nazionale di Conte. La spiegazione di queste costruzioni più tendenti a essere un club – nazionale che una selezione di giocatori dei club, potrebbe stare in tre punti cardine. L’organizzazione strutturale e quindi congiunta di tutti i settori del movimento, dagli organi istituzionali alle scuole calcio, dal settore tecnico dedito allo sviluppo del gioco alla base per formare giocatori nazionali fino alle metodologie di allenamento che lo impiantino su concetti di squadra, magari anche diversi da quelli del club, perché ciascuno pensa con la sua filosofia il gioco, ma che non si limitino a sgambature o defaticanti. La terza ragione è un blocco squadra che nei club (Barcellona, Bayern e Juventus) è transitato da una sponda all’altra cercando anche in nazionale la mentalità che li ha resi grandi, quella della squadra forte e dura che si confronta con gli ostacoli cercandoli per superarli.

    Grandi allenatori come Sebes e Michels hanno costruito squadre nazionali come Ungheria e Olanda, che poi questa grandi costruzioni non abbiano vinto non conta ai fini di questo tema calcistico, non dimostra l’infondatezza di una teoria come questa, è solo il segno dell’incompiutezza che alberga comunque sempre anche nei grandi e nelle grandi idee.
    Una linea sottile sognatrice e poco forse pragmatica ci indica che volendo, con un lavoro d’assieme si può fare una costruzione diversa che permetta a una selezione di pensare come una squadra e di essere quindi più forte. Pensiamoci a questa tesi che alcuni allenatori ci presentano, non scartandola a priori ma discutendola e proviamola a intraprendere come movimento tutto in questo momento di transizione del calcio italiano in termini strutturali e tecnici. L’idea di provare a costruire un’utopia calcistica fuori dalla convenzione potrebbe rivelarsi la strada diversa verso la rinascita. Seguiamo l’eresia di Conte e di Ventura. In fondo l’eresia è una scelta, e poter scegliere è bellissimo.

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