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  • Addio a Galeazzi, parlava al popolo e le sue esultanze arrivavano dal cuore

    Addio a Galeazzi, parlava al popolo e le sue esultanze arrivavano dal cuore

    • Marco Bernardini
      Marco Bernardini
    Ho visto un re. Anzi, il suo giullare. Quello che, per far divertire il sovrano, le inventava di ogni. Apparentemente sussiegoso e servile. In realtà velenoso e corrosivo. Astutamente volpino e quindi capace di strappare una risata a chi, in realtà, avrebbe dovuto incazzarsi di brutto semmai avesse compreso lo sfottò. Non accadeva. Il Potere, padrone delle nuvole che sono impalpabili, annulla ogni accenno di autocritica. E lui si divertiva un mondo. L’importante era che a capire fossero coloro che vivevano fuori dal Palazzo. Gli umili, gli analfabeti, gli affamati, i pezzenti. Il popolo del giullare. Il suo popolo.

    Lui, Giampiero Galeazzi, e quella banda di pazzi con la quale, specialmente nel corso dei mitici e craxiani Anni Ottanta, ebbi sovente a condividere umori, onori, e oneri. Tutti un poco contaminati dal “virus” inguaribile di Beppe Viola il quale ci aveva lasciati basiti senza manco lo straccio di un preavviso come saluto, viaggiavamo consapevoli in direzione ostinata e contraria rispetto a quelli che lo sport era cronaca e statistica, descrizione asettica e trionfalismo retorico. Una faticaccia, ma anche un gran godimento. Galeazzi guidava quella truppa brancaleonesca della quale facevano parte Vincenzo Mollica, Gianni Mura, Emiliano Mondonico, Giuseppe e Carmine Abbagnale e, talvolta, anche io.

    Non l’ho mai chiamato “bisteccone”. Era Giampi e basta anche se il finale di ciascuna giornata era definito dalla frase “Mo’ annamo a magnà”. Era un invito, anzi un ordine, non al nutrirsi ma alla crapula di stretta osservanza latina sulla falsariga della “Grande abbuffata” di Marco Ferreri. Ne usciva indenne soltanto lui. In un ristorante di Puebla, in Messico, dove eravamo per seguire l’Italia ai Mondiali del 1986 tentai di tenergli testa tra portate improponibili tanto erano solforose e infernali. Mi ammalai al punto che giorni dopo, prima della partita con la Corea del Nord, alzai bandiera bianca e dovetti tornare in Italia mezzo intossicato. “Aoh, manco reggi il semolino”, mi disse mentre entravo nell’ambulanza che mi avrebbe portato all’aeroporto di Città del Messico. Lo mandai a quel paese.

    Eppure anche quella sera di infame disastro gastrico consumato “tète a tète”, Giampiero mi aveva lasciato qualche cosa di importante e di utile per la nostra professione da marciapiede. Piccoli e brevi romanzi popolari da lui vissuti in diretta non tanto come giornalista ma soprattutto nel ruolo di coloro che osservano, da distante, per vivere l’evento insieme con i protagonisti, piuttosto che per descrivere le loro imprese. La sua esultanza e la sua partecipazione al trionfo degli Abbagnale arrivava direttamente dal cuore. Così come il lasciarsi strappare il microfono da Diego Maradona, nello spogliatoio del primo scudetto, non era un gesto studiato da film ma un atto dovuto. L’Avvocato Gianni Agnelli, che era una volpe della comunicazione, ogni volta che lo vedeva gli diceva a microfono aperto: “Ah, c’è lei Galeazzi, allora deve essere un evento davvero importante”.

    Poi arriva il tempo della pensione che per quelli da marciapiede è soltanto un modo di dire, se il fisico regge in barba a tutte le trasgressioni usuranti. Non ci si incontrava più. Qualche telefonata. Sempre di meno, però. Vincenzo avvolto dalle sue ombre. Emiliano e Gianni a discutere tra le nuvole. Lui, Giampiero, che compare su una carrozzella dalla Venier ma non fa pena, soltanto rabbia. Anche a se stesso. Dirà: “Ho sbagliato. Una figura di merda”. Sapevamo tutti che era malato e che doveva indossare il pannolone perché il diabete impone anche una simile frustrazione. Però dover venir informati dal Tiggì che se ne è andato non va niente bene. Proprio all’ora di pranzo poi. Mangiare e piangere allo stesso momento non è possibile.

    Addio a Galeazzi, parlava al popolo e le sue esultanze arrivavano dal cuore

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