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  • Da Viareggio a Torino e ritorno sul treno degli affetti 'sospesi'

    Da Viareggio a Torino e ritorno sul treno degli affetti 'sospesi'

    • Marco Bernardini
      Marco Bernardini
    Sveglia presto. Come sempre, da molto tempo ormai. Gli anziani dormono poco. Non è un giorno come un altro. Il sole illumina il panorama della  “nuova e cauta liberazione”. Il primo pensiero, quasi irresistibile, è quello di andare alla stazione di Viareggio, prendere un caffè al bar servito nella tazzina e di salire sulla ”Freccia argento” che, partita da Salerno, arriverà al terminal di Torino Porta Nuova. Sono almeno dieci anni che non faccio ritorno nella mia città. Il timore di provare un terribile magone appena sceso dal treno ha frenato il desiderio del rientro, seppure occasionale. Oggi è diverso. Oggi le stazioni di tutte le città, grandi e piccole, saranno le autentiche protagoniste di questo mercoledì 3 giugno che, insieme con tante altre storie recenti, sono già scritte sui libri di storia del nostro Paese. Oggi è il giorno in cui a ciascuno di noi viene concesso di recuperare gli affetti sospesi.

    Il treno dei desideri e delle certezze ritrovate non viaggia all’incontrario come nella canzone di Paolo Conte. Il treno è il mezzo ideale per tornare da chi o da che cosa si era lasciato e, soprattutto, poco impegnativo dal punto di vista della fatica. Seduti, a debita distanza gli uni dagli altri, possiamo usare le ore del viaggio per pensare e per riflettere in grande tranquillità. Dal finestrino scorreranno le immagini dei luoghi che da più di tre mesi non avevamo più è potuto vedere. Dopo Genova Principe, poi, ci si presenterà ai nostri occhi il Ponte Morandi nuovo di zecca che l’architetto Enzo Piano ha ridisegnato per Genova. Il luogo di una tragedia, ahimè annunciata, che pareva dover essere l’ultima e la più dolorosa per la brava gente dell’Italia. Invece no. E manco potevamo immaginare che cosa stava per accaderci.

    Nessuno, oggi, potrà evitare di ascoltare il classico “tratatran” che fa il treno mentre viaggia e di interpretarlo come il suono di un metronomo che scandisce i nomi ei volti delle quasi, fino a oggi, trentaquattromila vittime del Covid19. I nostri morti. Non affetti sospesi dalla lontananza forzata ma anime leggere che, forse, un giorno incontreremo da qualche altra parte. Padri, madri, nonni e amici la cui memoria ancora fresca è stata insultata  ieri da leghisti, no vax e dissidenti pentastellati impegnati a urlare in piazza il loro negazionismo al pari di coloro i quali sostengono che l’Olocausto non c’è mai stato. Un motivo per riflettere su quale disastro ci avrebbe atteso se malauguratamente avessimo affidato nelle mani di questi sciagurati la nostra vita politica e sociale.

    Il treno va e le immagini di un film per certi verso horror si sovrappongono. Quelle dei camion militari che sfilavano nella notte a Bergamo con al loro interno le bare delle vittime di questo virus ”inesistente”. Quelle di medici e infermieri stravolti da un lavoro a loro ignoto. Relazioni quotidiane di autentici bollettini di guerra. La gente chiusa in casa e, come unico canale per rimanere in contatto, computer e telefoni. Code di persone silenziose e tristi davanti alle farmacie e ai supermercati. Il ricordo di quella partita maledetta tra Atalanta e Valencia che sortì l’effetto di una bomba chimica. Soltanto la natura non si era fermata. Animali nelle strade delle città, fiori e piante che crescevano, acqua e aria più pulite o meno tossiche. Affettuose lontananze che facevano male al cuore e all’anima. Fidanzati, amanti, amici, figli e nipoti. Il telefono non era sufficiente a colmare quei vuoti.

    “Tratatan” e un fischio. Il treno rallentala sua corsa. Sta per entrare in stazione. Sono trascorsi tre mesi dall’ultima volta. Sembra essere passata una vita. Chi ci vuole bene e a chi noi voglia bene è lì, sulla pensilina, che aspetta. Ci riconosceremo anche da lontano e nonostante il volto coperto dalla mascherina. Ancora niente baci o abbracci, per carità. Saranno gli occhi a parlare per dire tante cose e soprattutto per raccontare agli affetti non più sospesi che siamo pronti per ricominciare a vivere. In modo diverso, però, da quando ci illudevamo di essere sani ma in realtà eravamo molto malati anche se il coronavirus non era ancora arrivato a farci capire quanto siamo fragili e piccini.
     

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