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Dalla tuta di Sarri al colbacco di Giagnoni e ai bermuda di Malesani: dimmi come ti vesti e ti dirò che allenatore sei

Dalla tuta di Sarri al colbacco di Giagnoni e ai bermuda di Malesani: dimmi come ti vesti e ti dirò che allenatore sei

  • Furio Zara
    Furio Zara
Se in queste ore si parla molto della tuta di Sarri è (anche) perché nel calcio - come nella vita purtroppo - ci concentriamo sulla forma e non sul contenuto. La tuta, dunque, sottintende filosofia operaia ed è probabilmente il capo d’abbigliamento meno elegante in circolazione. Chi storce il naso dice: non è da Juve, non è nello stile della Juve. Sarà: ma due allenatori in tuta (Sarri e Klopp) hanno vinto Europa e Champions League. In ogni caso, siamo qui a ripercorrere la storia del nostro calcio per trovare come/quando un allenatore ha trovato una precisa identità grazie anche ad un accessorio del suo look (spesso quando ancora non si chiamava look).

Ci viene in mente il colbacco di Gustavo Giagnoni, indossato col Toro negli anni ’70.  Quel colbacco era diventato un poster, il totem dell’opposizione, di chi stava dall’altra parte e andava all’attacco del Potere, degli indiani che vedevano i cowboy sulla collina. Giagnoni sembrava un Napo Orso Capo orgoglioso e sanguigno, girava con quell’affare in testa e due cespugli di capelli crespi gli uscivano a coprirgli le orecchie. Glielo aveva regalato un suo amico rappresentante, di ritorno da un viaggio in Lapponia. E Giagnoni si riconosceva nella simbologia di quel colbacco da volerlo indossare sempre. Legato a motivi più scaramantici invece il cappotto blu scuro di Renzo Ulivieri. Cominciò a portarlo in inverno, poi lo tenne sempre, sotto il sole, bolliva, sudava, ma non lo toglieva: con quel capo vinse campionati a Vicenza e Bologna. Fuori da ogni regola Alberto Malesani, unico allenatore ad essersi presentato in panchina in bermuda: successe alla prima giornata della stagione 1997-98, a Udine, Udinese-Fiorentina, debutto di Alberto sulla panchina viola, tripletta di Batistuta e partita ribaltata con il tecnico veneto che corre sotto la curva a festeggiare.

Per tornare ai cappellini: hanno fatto epoca quelli di Cosmi, seguito in anni più recenti da Iachini (non se lo leva mai: non è un vezzo, ha un problema agli occhi e gli dà fastidio la luce del sole) e Zenga. In questi anni abbiamo visto Mihajlovic e Spalletti in gilet, Gasperini in camicia con cravatta, Stellone con la camicia jeans fuori dai pantaloni. La tuta è stata una prerogativa di Mazzone, sicuramente del Barone Liedholm, Lippi ci ha vinto un Mondiale, sempre in tuta era Guidolin, anche Ventura ai tempi del Toro (in nazionale invece ci è andato incravattato), Giampaolo (visto addirittura con un fratino ai tempi di Empoli: al Milan cambierà qualcosa?), De Zerbi con un maglioncino nero da happy hour sui Navigli.

Fuori dall’Italia fanno tendenza il maglioncino girocollo (con inevitabile t-shirt bianca) del finto casual Guardiola, ma anche la giacca nera con camicia nera e cravattino nero e mocassini neri di Simeone. Gli elegantoni sono Conte, Mourinho, Ancelotti, Quiquè Sanchez Flores: inattaccabili dal punto di vista dello stile. Un tuffo nel passato: Bearzot vinse il Mundial del 1982 in camicia azzurra e cravatta, con la giacca adagiata sulle spalle, come si usava un tempo; Fabio Capello festeggiò lo scudetto della Roma in camicia con maniche arrotolate e cravatta, Nereo Rocco vestiva abiti di sartoria con il cappello sulle ventitré, Helenio Herrera sempre in giacca e cravatta e - quando pioveva - un tabarro a ripararlo, perché all’epoca le panchine non erano coperte. Altri tempi, altri stili.

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