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Finisce l'era del made in Italy: da Ancelotti a Conte e Sarri, i big della panchina tornano a casa

Finisce l'era del made in Italy: da Ancelotti a Conte e Sarri, i big della panchina tornano a casa

  • Giancarlo Padovan
    Giancarlo Padovan
L’Italia continua a produrre allenatori e l’unico modo per impiegarne almeno una parte è guardare oltre frontiera. Così siamo al cospetto di un paradosso: per gli oltre centocinquanta che lavorano all’estero (la stima è di Massimo Fiandrino, mio statistico di fiducia) ci sono almeno quattro big che, negli ultimi due anni, sono rientrati. Parlo di Roberto Mancini (dallo Zenit alla Nazionale), Carlo Ancelotti (dal Bayern al Napoli), Antonio Conte (dal Chelsea all’Inter), Maurizio Sarri (dal Chelsea al Napoli). Per la precisione Ancelotti e Conte venivano da un anno di inattività, però erano stati in corsa per altri club stranieri:  l’Arsenal era su Ancellotti, lo United su Conte.

In giro per il mondo, l’Italia ha tre c.t. (Lippi/Cina, Reja/Albania, Marco Rossi/Ungheria), mentre un gruppo nutrito di tecnici è rappresentato da Cannavaro (Evergrande), Tramezzani (vincitore dell’ultimo campionato cipriota con l’Apoel Nicosia), Stramaccioni (in Iran con l’Esthegal), Angelo Alessio (alla prima esperienza con il Kilmarnock, Premier League scozzese), Sannino (all’Honved in Ungheria), Lerda (Partizani Tirana già impegnato nei preliminari di Champions League). Non è tutto, non sono tutti: si va da Bordin (in Azerbaijan) a Viviani (Arabia Saudita), da Bergodi (Romania) a Sanderra (Scozia, Hibernian, niente male), da Maddaloni (nello staff di Lippi e responsabile dell’Under 23 cinese) a Ugolotti (Malta).

Gente che va e gente che viene (chiediamo scusa ai non citati che sono la maggioranza) a dimostrazione che il lavoro in Italia c’è solo per il grosso nome, mentre il resto non si può giocare nemmeno una mezza buona occasione. Il fenomeno indica che se il flusso migratorio aumenta, diminuisce la qualità della destinazione e gli allenatori si devono adattare. Al via della prossima stagione nella nostra serie A, per esempio, ci sono quattro allenatori stranieri (Mihajlovic, l’esordiente Fonseca, Tudor e Juric) e sedici allenatori italiani. Non accadeva dal 2016. L’anno scorso di straniero ce n’era solo uno (Velasquez dell’Udinese). E dire che quest’anno ci sono stati sette cambi di panchina rispetto all’anno scorso e per la quinta volta i tre grandi club del nord hanno sostituito il precedente allenatore: Sarri per Allegri (Juventus), Conte per Spalletti (Inter), Giampaolo per Gattuso (Milan). Era accaduto nel 1974/75, nel 1991/92, nel 2001/2002 e nove anni fa: Benitez per Mourinho (Inter), Del Neri per Ferrara e poi Zaccheroni (Juventus), Allegri per Leonardo (Milan).

Il problema per i giovani o per i nuovi è che nelle caselle più prestigiose o in quelle della serie A girano sempre i soliti nomi, a maggior ragione se tornano dall’estero onusti di gloria. Mancini non aveva vinto in Russia, ma in Inghilterra e Turchia sì. Ancelotti era stato esonerato al Bayern, anche se aveva vinto il campionato qualche mese prima ed è, per distacco, il più vincente tra gli italiani. Conte in due anni ha conquistato Premier e Coppa d’Inghilterra. Sarri l’Europa League al primo tentativo al Chelsea, dove era succeduto proprio a Conte. Ovvio che, tornando in patria, tutti fossero cercati per posti di prestigio.

Resta da capire cosa li muova a rientrare: se la nostalgia, la vicinanza alla famiglia, la necessità di una pressione che ti nutre e ti mangia contemporaneamente, la lingua e le abitudini, un calcio che conoscono meglio e al quale sono più affezionati. I soldi no: Inghilterra e Germania, ai massimi livelli, pagano di più. Su Sarri è facile rispondere: la chiamata della Juve era l’occasione della vita e qualsiasi progetto di proseguire al Chelsea è stato frantumato dalla proposta di Agnelli. Idem per Mancini: voleva fortemente la Nazionale e ottenerla è stato il coronamento di un lungo inseguimento. Rinunciare ai soldi dello Zenit non è stato difficile. Più articolate le posizioni di Ancelotti e Conte. Il primo aveva voglia di un fine carriera a lungo termine, con un obiettivo alto, ma non necessariamente immediato. Napoli è stata una buona occasione quando ormai le proposte si erano esaurite e il posto di c.t. già assegnato a Mancini. Il secondo, invece, aveva il sogno dello United, è stato a lungo corteggiato dalla Roma, ha trovato un traguardo nell’Inter. La società è ricca e ha bisogno di vincere subito. Gli riuscisse di strappare lo scudetto alla Juve dopo otto anni di dispotico dominio, avrebbe compiuto un altro capolavoro. Forse nella valutazione di Conte ha influito anche la lettura della concorrenza (con la Roma o in Premier ne avrebbe avuta di più), fatto sta che il duello con Sarri si annuncia avvincente: uno dei due ex emigranti vincerà o avrà fallito.

@gia_pad

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